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Cosa sta succedendo ai direttori creativi?

Questo Natale comincia a riservare troppe sorprese sotto l’albero

Cosa sta succedendo ai direttori creativi? Questo Natale comincia a riservare troppe sorprese sotto l’albero

L’annuncio è arrivato in un colpo solo: Matthieu Blazy esce da Bottega Veneta per andare da Chanel e Louise Trotter, uscita lo stesso giorno da Carven, lo sostituisce. Secondo praticamente tutti, mentre John Galliano è andato via da Maison Margiela, Glenn Martens, uscito da poco da Y/Project, dovrebbe prendere il suo posto. Senza menzionare le chiacchiere che s’inseguono a Milano in questi giorni, secondo cui anche Jil Sander e Fendi potrebbero presto cambiare direttori creativi, mentre ne servono di nuovi per Helmut Lang, Carven e Y/Project  – per non parlare di tutti i prossimi debutti che ci aspettano nei prossimi mesi, tra Michael Ryder da Celine, Haider Ackermann da Tom Ford, David Koma da Blumarine, Sarah Burton da Givenchy e anche Veronica Leoni da Calvin Klein. E altri designer, Hedi Slimane e Pierpaolo Piccioli in primis, ma anche Riccardo Tisci e Jeremy Scott ad esempio, rimangono al momento dei free agents che probabilmente non resteranno fuori dai riflettori per molto. Era in effetti da qualche tempo che così tanti scossoni non scuotevano il sistema moda: anche se tutti i designer che dovranno presto debuttare porteranno una ventata di novità a un meccanismo un po’ incartato come quello della moda, bisogna presumere che dietro questa serie di cambi strategici e di annunci si nasconda il riflesso di una disfunzione sempre più profonda. Si dice da tempo che la moda non vende più sogni ma prodotti, che ha tradito il suo spirito originario, ma magari le cose cambieranno. Detto questo, con un fashion month che incombe al di là delle vacanze natalizie, tutti questi cambiamenti in corsa riusciranno veramente a riscuotere un’industria del lusso verso cui la fiducia è ai minimi storici?

Si può certamente parlare, considerati anche i molti ricambi manageriali avvenuti all’interno dei grandi gruppi, di un più ampio riassestamento strategico dell’intera industria e, nota positiva, sul piano dei direttori creativi vediamo che a essere promossi sono designer dotati di visioni forti e molto singolari. Pierre A. M'Pelé di GQ France ha parlato su Threads di una nuova età dell’oro. L’ottimismo è ammirevole ma forse occorre prendere queste novità con il proverbiale grano di sale. Col tempo è diventato sempre più evidente che un cambio di direttore creativo è sempre di più una mossa anche mediatica. Certo, un designer fa moltissimo per l’immagine di un brand - in fondo sono la sua visione e il suo lavoro che guidano l’immagine e la narrativa di un brand - ma la verità è che oggi un direttore creativo deve rispondere a un CEO e a un famigerato team commerciale che lavorano in base a una logica puramente economica e il cui strapotere, insieme alla tirannia di quotazioni e dividendi, ha creato una barriera tra le collezioni che sfilano e le linee che alla fine atterrano in negozio. 

@storielibere.fm In questi anni Alessandro Michele ha costruito un laboratorio sempre in attività in cui i materiali della moda, la cultura pop, il punk, la storia dell’arte sono stati continuamente ricomposti in inaudite congiunzioni con cui è riuscito a terremotare una serie stereotipi legati alla moda. Link in bio per ascoltare l'intervista completa con Chiara Tagliaferri e Maria Luisa Frisa nella serie poscast Sailor #podcastitalia #tiktokfashion #moda #alessandromichele suono originale - storielibere.fm

Dunque il motivo dietro questi annunci è da un lato il bisogno dei brand di aggiornare la propria immagine e offerta creativa, dall’altro quello di eccitare il mercato creando una notizia, portando un’improvvisa ventata (o dovremmo dire scoppio?) di novità e creando trepidazione per riattivare infine l’interesse dei consumatori. Ma quanto può funzionare, o forse dovremmo dire quanto a lungo, questa tattica? La sua attività creativa si svolge insomma entro argini prestabiliti, con obiettivi prefissati e in ambiti pre-costruiti – lo spazio per l’iniziativa creativa pura è sicuramente ridimensionato rispetto al passato. In fondo un direttore creativo nel 2024 non è più la voce del brand: è il solista di un più largo coro, un primus inter pares ma non un monarca assoluto. Ed eccettuati i casi di strategie a lungo termine che valorizzano la continuità a dispetto della performance, qualunque direttore creativo può essere deposto se gli investitori non sono contenti dei risultati economici.

Ulteriore nota a margine è quella da fare sulla artificiosa sincronia di queste nomine, il cui balletto appare coreografato con un anticipo tale che tanti diversi player, rivali tra loro, hanno dovuto accordarsi per una raffica di annunci da sparare uno dietro l’altro. La chiave qui è l’idea di strategia: si parla del cambio di direttori creativi come di un gioco di sedie musicali ma se fosse veramente un gioco del genere ci sarebbe una parte di casualità in esso – questi cambi assomigliano sempre di più a una partita a scacchi razionale e calcolatissima. Secondo i gossip, ad esempio, sia Marc Jacobs che Jacquemus sono stati scartati dalla rosa dei candidati per Chanel perché possedevano un brand proprio che li avrebbe distratti e invece la cosa che interessava al brand, per usare le parole di Bruno Pavlovsky, era «non dare l’impressione che il brand si fosse bloccato» per renderlo invece «pertinente»: insomma l’esigenza era quella di modernizzare l’immagine del brand e dunque il direttore creativo giusto sarebbe stato quello che più si attagliava a questo profilo ricercato – in questo caso Blazy, il grande modernista. Non di meno, se da un lato è indubbio che adesso stampa e pubblico che si interessano più ai designer che ai brand guarderanno Chanel con occhi nuovi, è anche indubbio che il lavoro di Trotter da Bottega Veneta e di Blazy da Chanel rimarranno in qualche misura dipendenti dal passato: quanto saranno davvero liberi di innovare? Quanto invece dovranno colorare dentro i margini di un disegno che è già stato eseguito? Se la visione creativa di questi designer è quella su cui i brand scommettono, bisognerebbe forse allora ridiscutere il meccanismo per cui solo una minuscola frazione dei look della sfilata finiscono poi in negozio dato che dopo la collezione che vediamo in passerella ne viene fatta un’altra che magari non è del tutto irrelata ma quasi. Nella partita dei direttori creativi, CEO e aziende hanno iniziato a fare puntate sempre più alte – ma siamo certi che abbiano capito le regole del gioco?