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I pericoli del self-branding nella moda

Chiara Ferragni, Martha Stewart e perché occorre separare la persona dal brand

I pericoli del self-branding nella moda Chiara Ferragni, Martha Stewart e perché occorre separare la persona dal brand

Creare un brand è un po’ come dare alla luce un figlio. Lo ripetono per le aule delle scuole di moda tutti gli studenti di design, a fine anno, quando vedono sfilare per la prima volta le loro collezioni di laurea. Per quanto la frase fatta «è stato un parto» possa far sorridere, effettivamente ideare un progetto da cima a fondo, dargli forma e infine buttarlo in pasto alla stampa e ai clienti necessita di uno sforzo mentale e fisico colossale. Tra le cose di cui un nuovo brand ha bisogno, poi, c’è ovviamente il nome. E qui si apre un mondo. C’è chi studia letteratura e storia dell’arte per trovare un titolo ricercato alle proprie creazioni, chi si limita a dare un nomignolo simpatico e chi, infine, sogna di vedere il proprio nome stampato su un’etichetta. Negli ultimi anni, quest’ultima opzione sembra andare per la maggiore: da quando i social media hanno commercializzato l’identità personale, da quando il mondo degli influencer ha inflazionato nomi e cognomi (ma solo quelli con un certo numero di follower), anche alcuni giovani designer sono caduti nella trappola del self-branding. Se vi state chiedendo perché potrebbe essere un rischio, vi chiediamo di guardarvi indietro per un breve istante: cosa è successo alle aziende di Martha Stewart, di Alexander Wang e di Chiara Ferragni, una volta che la loro immagine ha subito gravi accuse? 

@netflix Martha Stewart shares her incredible journey of resilience and reinvention in the new documentary, Martha, directed by R.J. Cutler, coming to Netflix October 30. #MarthaStewart original sound - Netflix

Designer e stilisti scelgono di chiamare il proprio brand con il loro nome dagli inizi della storia della moda: Charles Frederick Worth, Christian Dior, Yves Saint Laurent e Coco Chanel ne sono un esempio. Ma ai loro tempi questioni come la scalabilità del business e la cancel culture non erano ancora entrate a far parte del vocabolario comune. Sebbene nel mondo degli influencer sia molto facile diventare popolari, è altrettanto facile cadere nell’oblio. Di conseguenza, dare il proprio nome a un’attività, e quindi legare l’identità del brand alla propria, mette indubbiamente a rischio il futuro dell’azienda. Per spiegare meglio il fenomeno si potrebbe raccontare l'ascesa e il declino dell’impero di Martha Stewart, raccontata recentemente nel documentario Netflix The Many Lives of Martha Stewart. Considerata da esperti mediatici e colleghi «la prima influencer della storia», la conduttrice e intrattenitrice televisiva americana diventò famosa alla fine degli anni ’80, quando cominciò a mostrare al pubblico statunitense tutti i modi in cui essere una casalinga perfetta. Il successo senza fine di tutti i suoi progetti (programmi televisivi, magazine e libri di cucina, di fai-da-te e di giardinaggio) la portò a quotare in borsa la Martha Stewart Living Omnimedia, nel 1999, ma tre anni dopo l’imprenditrice finì al centro di uno scandalo finanziario che la condannò a cinque mesi di prigione e cinque di arresti domiciliari. Come risultato, la Martha Stewart Living Omnimedia (che fino ad allora valeva $2miliardi) subì un crollo incredibile in borsa, obbligando l’imprenditrice a ritirarsi dal mercato e, conseguentemente, a sgretolare e a vendere in minuscole azioni tutto il suo impero. Nel documentario, uno degli intervistati ha sottolineato che «l’errore più grande di Stewart è stato dare il proprio nome alla sua azienda». Non appena il personaggio di Stewart è stato travolto da un'alone di controversia, la reputazione del brand si è sbriciolata insieme alla sua. 

Nonostante nel nuovo millennio la sventurata storia di Martha Stewart sia tornata sotto nuova forma con esempi come il Pandorogate di Chiara Ferragni del 2023 che ha avuto le sue prime e più forti ripercussioni proprio sui negozi dove veniva venduto il brand eponimo dell'imprenditrice. Un altro esempio arriva da Alexander Wang che, dopo le accuse di molestie sessuali del 2019, ha ritirato il proprio brand (e quindi nome) dal calendario della Fashion Week per ben quattro anni salvo poi ritornare nel 2022 senza però essersi del tutto ripreso dallo scossone. In più, dare il proprio nome a un brand comporta rischi notevoli non solo per un’azienda, ma anche per la persona stessa. Lo sapeva Virgil Abloh che dei trademark era un maestro tanto che molti sospettarono che a un certo punto avesse registrato il suo stesso nome. Ma sono sempre di più gli imprenditori, specialmente nel beauty, che hanno imparato a dissociare il proprio nome dai propri brand - basti pensare a come tutti i celebrity brand delle star di Hollywood spesso non abbiano il nome delle loro fondatrici: Rhode, Florence by Mills, Fenty Beauty, Goop, Haus Laboratories. Una scelta, quella di proteggere il proprio nome, che sarà stata ispirata ai numerosi casi che hanno visto designer di moda del passato perdere i diritti sul proprio nome: Jil Sander, Thierry Mugler, Martin Margiela, Ann Demeulemeester, Helmut Lang, Halston, John Galliano e Donna Karan. Tutti questi designer hanno venduto i trademark legati al proprio nome, perdendo però i diritti all’uso dello stesso. Quando ad esempio la designer Jil Sander è tornata a collaborare con Uniqlo nel 2020, il nome della collezione è stato J+ in quanto la dicitura Uniqlo x Jil Sander avrebbe implicato che era il brand e non la sua designer a collaborare con il retailer giapponese dato che, come ha specificato a nss magazine una rappresentante del marchio «il brand porta il suo nome, ma la Sig.ra Sander non è più legata alle attività della maison».

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Associare la propria identità a ciò che si vende, in fondo, è un po’ come esporsi apertamente a critiche e insulti; come spesso è accaduto a personaggi pubblici che hanno fatto della loro personalità un marchio di fabbrica su cui investire, l’unica persona che rimane gravemente ferita quando succedono capitomboli in stile Martha Stewart è chi ha deciso di metterci la faccia. Quindi, anche se dare il proprio nome a un progetto può essere motivo di orgoglio, non sempre porta ai risultati sperati: la fama, dopotutto, non è il vero segreto del successo. Nella moda come nel fai-da-te.