Il logo c’è ma non si vede
Logo sì? Logo no? Perché non entrambi?
13 Novembre 2024
Che la moda sia ciclica è cosa nota. E il continuo mutare di stili coinvolge anche i loghi. Dieci anni fa, il mondo della moda li aveva riesplorati in tutta la loro esuberanza, trasformandoli a volte in stampe all-over nella cui superficialità spesso si esauriva tutto il design. “Logomania” fu la parola usata all’epoca per parlare di questa tendenza, trainata da Virgil Abloh e dalla sua rilettura post-moderna del logo, da Alessandro Michele da Gucci e da Demna da Balenciaga e soprattutto da Gosha Rubchinsky, la cui carriera venne poi giustamente stroncata ma che di fatto contribuì a sdoganare questo specifico tipo di pacchianeria. Ad ogni modo, per un certo periodo la logomania fu ovunque – così ovunque che presto stancò. Dopo il lockdown, la comunità della moda emerse cambiata, desiderosa di comfort ma soprattutto desiderosa di creatività, pregio materiale e innovazione. Iniziò l’era dei loghi con piazzamenti inattesi, vacanti o inesistenti, del lusso materiale che doveva parlare da sé – un’era forse rinfrescante ma alquanto noiosa. E proprio ora, al volgere di un nuovo periodo, i loghi paiono tornati ma in una forma diversa, semi-visibile, evidente ma discreta insieme. È l’era della quiet logomania. Tra i vari look che si potrebbero prendere ad esempio dalle sfilate recenti, potremmo indicare il più emblematico in un abito di pelle verde lime di Gucci, visto all’ultima fashion week, dove il logo era inserito a sbalzo soltanto sotto l’orlo superiore del vestito: non si vede da lontano ma è la prima cosa che si vede da vicino. Altrove, quasi ogni look dell’ultimo show femminile di Dior presentava un logo minuscolo in bianco stampato sul fianco destro; da Loewe invece abbondano le tag di pelle intrecciata che nemmeno indicano il nome del brand piazzate in diversi punti strategici di giacche e maglioni, spesso dietro il collo che è anche dove Prada ha iniziato a piazzare degli eloquenti triangolini, o dei ritagli triangolari, che sono loghi per chiunque sappia che lo sono.
Ma gli esempi sono molti: loghi ricamati in punti discreti di un abito bianco da Chanel, o trasformati in grafiche astratte come Marine Serre o Amiri, ma anche piazzati su etichette simili a quelle di certo sportswear anni ’90 o, classicamente, sul lato sinistro del petto come fanno da qualche anno Miu Miu e Balenciaga ma anche Valentino e stranamente Louis Vuitton, che comunque alla logomania non ha rinunciato, così come non ci ha rinunciato Gucci. Da Off-White o Courregès ci sono loghi molto centrali sul petto ma piccoli o tono-su-tono, comunque non predominanti, Charles Jeffrey Loverboy e Louis Gabriel Nouchi hanno invece pensato a tag piazzati sui boxer a vista che si notano solo se si guarda; da sempre invece DSQUARED2 piazza un minuscolo logo sulla patta dei jeans. Ma il punto qui non è la sparizione o apparizione dei loghi, quanto il compromesso che si è trovato sul loro posizionamento: devono esserci, devono essere visibili ma discreti e allo stesso tempo evitare di trasformare chi li indossa in pubblicità ambulanti del brand. Le tendenze comunque coesistono: da Prada e Miu Miu ci sono sia maglioni con maxi-logo che discreti triangoli sul retro del collo; da Gucci i branding sottili come le fasce colorate convivono con i capi ricoperti del motivo GG, così da Loewe, Louis Vuitton, Dior e via dicendo. Il pubblico è interessato. Secondo il WSJ, «Net-a-Porter ha visto le ricerche contenenti la parola “logo” aumentare del 444%. Mr Porter, che si rivolge agli uomini, ha registrato un aumento del 103% nello stesso periodo» mentre «dalla fine di luglio, Mr Porter ha registrato un aumento del 400% delle ricerche per i loghi di Loewe, tra cui il motivo anagrammatico del marchio, composto da quattro “L” corsive e a spirale». Il motivo di questo ritorno è in realtà facilmente intuibile: quando un cliente compra un semplice maglioncino blu navy di cachemire da quasi duemila euro, vuole che come minimo si veda a che brand appartiene.
La presenza di questi loghi, dunque, mantiene la funzione originaria di elevare design ordinari, giustificarne il prezzo e di segnalare lo status. La loro diffusione ha anche a che fare con l’ascesa della dupe culture, e dunque dei prodotti che simulano l’estetica di altri griffati senza falsificarne il brand; con il rapporto un po’ morboso che la moderna clientela della moda ha sviluppato con l’aspetto visuale del prodotto, quello cioè comunicabile attraverso i social media; e soprattutto con la scommessa che i brand stanno facendo su ciò che, citando uno studio del 2010, il WSJ indica come “segnali orizzontali” ovvero quegli elementi di riconoscimento che fanno comunicare tra loro persone dello stesso ceto sociale – quelli “verticali” come i mega-loghi o i monogram servono a comunicare status dal basso verso l’alto. Curiosamente, questo tipo di branding, specialmente sotto forma di piccolo logo sul petto, è associato principalmente con Polo Ralph Lauren che solo settimana scorsa ha pubblicato dei risultati finanziari molto forti (1,7 miliardi di dollari in vendite solo nel secondo trimestre dell’anno) e che in effetti rappresenta un caso unico di brand che parla a diversi segmenti di mercato attraverso diverse linee senza affatto diluire il proprio appeal. Insomma, se un capo è firmato, magari non si deve proprio vedere, ma lo si deve assolutamente capire – per tutto il resto c’è Uniqlo.