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Perché i brand di moda non abbassano semplicemente i prezzi?

Sì e no, dato che la questione presenta più problemi da più lati

Perché i brand di moda non abbassano semplicemente i prezzi? Sì e no, dato che la questione presenta più problemi da più lati

In un articolo pubblicato su Reuters ieri, Helen Reid e Mimosa Spencer analizzano le sfide che il nuovo CEO di Burberry, Joshua Schulman, dovrà affrontare. I problemi del brand esistono su più livelli anche se uno dei principali sta nel rapporto tra prezzi e percezione del brand, specialmente a causa degli outlet. «Secondo alcuni investitori e analisti, i circa 56 outlet di Burberry dovrebbero essere la priorità assoluta per Schulman, in quanto potrebbero ostacolare i tentativi di spingere il marchio verso la fascia alta del settore del lusso», scrivono le due giornaliste, rivelando che da questa catena di outlet sparsi per tutto il mondo proviene il 50% dei profitti di Burberry e il 30% delle vendite – una cifra gigantesca. In pratica il pubblico continua ad acquistare Burberry ma semplicemente è disposta ad acquistare a prezzi più convenienti: il brand possiede 422 negozi nel mondo, ma la metà delle vendite proviene da quella minuscola frazione di essi, poco più di una cinquantina, che offrono la merce a prezzi più bassi. Come dice il proverbio inglese, insomma, «the writing is on the wall». Allo stesso tempo altri brand hanno parlato in questi giorni dei propri risultati economici positivi: Coccinelle ha raggiunto vendite per 100 milioni di euro quest’anno, con una crescita del 13% nella prima metà dell’anno; mentre Elisabetta Franchi si espande negli USA con un primo, enorme store a Miami e, nonostante il prezzo dell’argento in salita, il brand di gioielleria danese Pandora vede vendite in crescita dell’11% e 879 milioni di dollari di vendite. Anche Zalando ha visto le revenue salire del 5% nell’ultimo trimestre – segnalando che sotto la coltre di ceneri del lusso, i consumi della fascia media sono ancora accesi. Insomma, basterebbe ridurre i prezzi del lusso per salvarlo?

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L’argomento prezzi, nel caso di Burberry, è stato preso in considerazione. Nel pezzo viene intervistato l’investitore Tom Selic che dice che il brand ha alzato i prezzi troppo e troppo rapidamente alienando la fascia di clienti aspirazionali mentre un’analista della Bank of America dice che «se Burberry dovesse intraprendere la strada dei marchi premium (come Coach), il multiplo prezzo/utile che il mercato applica a questi marchi può essere la metà di quello dei veri operatori del lusso». E ciò significa che se Burberry dovesse dimezzare i prezzi forse le vendite si alzerebbero ma il valore delle azioni calerebbe e perderebbe valore per gli investitori. Ridurre i prezzi potrebbe effettivamente rendere i prodotti di Burberry più accessibili a un pubblico più ampio e aumentare il volume delle vendite - ma nel contesto del lusso, questo approccio potrebbe compromettere la redditività e il valore del marchio a lungo termine. Bisogna infatti capire se l'aumento del volume di vendite sarebbe sufficiente per compensare la riduzione del margine di profitto su ciascun articolo. Abbassando i prezzi, Burberry potrebbe infatti ridurre i propri margini, generando meno profitto per unità venduta anche in caso di un incremento del fatturato.  Seguendo l’equazione «esclusività = desiderabilità», ridurre i prezzi potrebbe compromettere la percezione del lusso, diluendo la brand equity Burberry, allontanando la clientela benestante che cerca prestigio, esclusività e l’esperienza di lusso associata ai brand di alto livello.

Dal punto di vista della redditività, anche se un abbassamento dei prezzi può far crescere le vendite, i brand di lusso si basano su margini di profitto elevati piuttosto che solo sul volume. Se Burberry sacrificasse il proprio potere di determinazione dei prezzi, rischierebbe di diventare meno redditizio, anche se vendesse di più – sacrificando di base la natura immateriale del brand stesso come il valore percepito, l’artigianalità e lo status. Abbassare i prezzi posizionerebbe Burberry più vicino ai marchi di "lusso accessibile" come Coach o Michael Kors, mentre Hermès o Louis Vuitton mantengono margini elevati grazie alla forte brand perception, alla relativa rarità dei prodotti e alla fedeltà dei clienti. In termini del rapporto tra prezzo e utili delle azioni, i brand di lusso godono spesso di multipli molto alti a causa della loro resilienza e del loro valore aspirazionale; se gli investitori applicassero un multiplo più basso alla società, le ripercussioni sul valore di mercato del titolo potrebbero essere drastiche. Ma qui c’è un’obiezione da fare. Il ragionamento implica l’esistenza di una fascia di clienti abituali capaci di guidare la crescita del brand, eppure se quei clienti ci fossero il brand non avrebbe problemi in primo luogo. Dopo tutto, i clienti abituali stanno tenendo a galla Brunello Cucinelli ed Hermès, i brand di alta gioielleria di Richemont e anche il Gruppo Prada, che gode in questi anni di un enorme favore presso il pubblico. I clienti che Burberry vuole in parte li ha già, e vanno a fare shopping negli outlet. Qui c’è un dilemma: la radice del problema sono gli outlet che indeboliscono i negozi full-price o i negozi full-price che risultano inaccessibili ai più? È un po’ come il problema dell’uovo e della gallina.

Un’altra problematica risiede nella questione dell’inventario. Nell’articolo di Reuters si capisce chiaramente che questi outlet offrono trench o comunque prodotti che risalgono fino a cinque anni fa – alcuni di essi potrebbero avere anche più anni. Ma se il brand intende coltivare la propria esclusività, come mai c’è questo ridicolo accumulo di prodotto? Perché le sue sciarpe e i suoi trench non sono rari come gli abiti di Hermès o Louis Vuitton? L’inventario invenduto pesa sulle spalle di Burberry dai tempi dello scandalo della merce invenduta data alle fiamme nel 2018 e significa senza dubbio che il brand produce molto più di ciò che è in grado di vendere. Produrre meno, ma con un valore più alto (in termini di artigianato, pregio dei materiali e via dicendo) sarebbe effettivamente una strategia più coerente per rafforzare l'esclusività del brand e aumentare i margini di profitto, se è vero che il volume delle vendite da solo non basta a soddisfare gli investitori. Limitare la quantità di prodotti rafforzerebbe la percezione di rarità e desiderabilità, consentendo al marchio di mantenere margini elevati per ogni prodotto venduto. Una produzione più contenuta porterebbe a una gestione migliore dell'inventario e ridurrebbe la necessità di svendite e di canali outlet, preservando la brand equity e tagliando i costi legati a una produzione eccessiva e al mantenimento di un elevato livello di inventario che è anche spesso un segno di previsioni di vendita poco accurate o di un desiderio di saturare il mercato, che si è evidentemente ritorto contro il brand. Il problema però è che non si possono servire due padroni – e Burberry è solo il primo di tutti i brand di lusso a dovere scegliere la propria strada in fretta. Molti altri seguiranno presto, se il tracollo della spesa in Asia non li stritolerà prima.