Le collaborazioni di Zara sono la nuova normalità?
Il ritmo col quale si susseguono sta diventando sempre più frenetico
22 Ottobre 2024
Zara ha annunciato ieri la sua prossima collaborazione con Nanushka, il brand ungherese fondato da Sandra Sándor nel 2006 e diventato nel corso del tempo un apprezzato produttore di design minimalistici e utilitari con un tocco di sofisticazione luxury. Questa volta, oltre ai vestiti, la collaborazione si estenderà anche all’arredamento, in un tentativo (presumiamo) di coniugare il potere del branding di moda verso la categoria Home sulla scorta dell’ottima accoglienza ricevuta dalla collaborazione di Zara Home con il designer e architetto Vincent Van Duysen, rinnovatasi per la terza volta quest’estate. L’annuncio della collaborazione con Nanushka, comunque non sorprende: a fine settembre c’è stato il secondo capitolo della collaborazione con Harry Lambert, due settimane fa è arrivata quella con Stefano Pilati, a novembre ci sarà quella con Kate Moss mentre a inizio ottobre è stata annunciata quella con Samuel Ross che arriverà a inizio 2025. La frequenza crescente di questi annunci lascia intendere che il gigante spagnolo del fast fashion abbia trovato una strategia vincente: sfruttare un calendario fittissimo di collaborazioni ed edizioni limitate per attirare i client in negozio, far loro sentire l’urgenza di acquistare subito e nel frattempo riposizionarsi sul mercato facendo discutere di sé nei circoli della moda. E l’espansione di queste collaborazioni anche ai prodotti per la casa e al beauty, come nel caso dei prodotti per capelli co-firmati da Guido Palau, dobbiamo chiederci: le collaborazioni di Zara sono la nuova normalità?
Pochi giorni fa Pambianco pubblicava la notizia per cui, secondo Statista, il turnover del settore fast fashion avrebbe dovuto complessivamente toccare i 136 miliardi di dollari quest’anno per poi crescere fino a 187 miliardi entro il 2027. Una crescita enorme che non solo corre sempre più vicina all’indotto della moda di lusso (che quest’anno, sempre per Statista, avrà un giro d’affari di 145 miliardi di dollari totali) ma che secondo alcuni analisti potrebbe addirittura superarla. E considerati i crescenti problemi affrontati dal settore manifatturiero italiano oltre che la progressiva glaciazione delle vendite del lusso che sta portando aria di tempesta anche nelle quotazioni in borsa per i mega-gruppi del settore, il futuro della moda per come la conosciamo appare tutt’altro che roseo. Il segreto di questo stacco crescente potrebbe in parte riposare proprio nelle continue collaborazioni che Zara e altri player hanno iniziato a sfornare a getto continuo: chiamando in causa designer come Stefano Pilati, Samuel Ross o brand come Nanushka il gigante spagnolo si legittima nei confronti degli ex-clienti aspirazionali del lusso e li trasforma anche in clienti. Dopo tutto c’è da confondersi: non solo i prodotti del brand e della collaborazione si somigliano molto tra loro ma in certi casi i prodotti co-firmati da Zara contengono più fibre e materiali naturali come pelle e lana dei prodotti di Random Identities. Lo stesso Pilati, nel parlare della collezione, si disse stupito dalla qualità delle capacità produttive di Zara.
La strategia funziona. Così bene, in effetti, che non solo Zara si sta slanciando con le collaborazioni, arrivando a produrne di ultra-specifiche come quella con l’artista indiano Jayesh Sachdev in occasione del Diwali, ovvero una delle più importanti feste religiose indiane, ma che per esempio H&M sta lavorando a una sorta di mega-celebrazione di tutte le collaborazioni con designer del passato. Per festeggiare il ventennale dalla prima collaborazione con Karl Lagerfeld, infatti, H&M creerà una riedizione di articoli pre-loved recuperati tramite la piattaforma di secondhand Sellpy e in alcuni vintage store di tutto il mondo portandola in una sorta di mega-tour europeo (una tappa si terrà anche a New York) che culminerà con una release online. L’idea, in sostanza, riguarda meno il celebrare la storia di H&M che il legittimare il peso del brand nel settore della moda di design attraverso i brand con cui ha collaborato. È chiaro che una collaborazione del genere preluda ad altre che sono in arrivo - la prima, già arrivata al secondo capitolo, con Heron Preston, che quest’anno ha firmato un contratto da “creative advisor”, forse con altri che saranno annunciati.
E anche se queste collaborazioni hanno il merito di rendere effettivamente più democratica la cultura della moda, non si può evitare di pensare che il loro rafforzamento ed espansione siano il risultato e non la soluzione della crisi che affligge l’attuale sistema del lusso: una maniera che il mercato adotta evolutivamente per adattare l’offerta creativa alla richiesta commerciale, facendo costare design creativi quanto il pubblico vorrebbe effettivamente pagarli. Ma anche una via che sempre più designer indipendenti intraprendono per mostrarsi a un pubblico veramente grande, veramente capace di spostare l’asticella della loro popolarità. Stefano Pilati, per fare l’esempio più famoso, è una figura di rilievo nella moda e basta: fino alla collezione con Zara, e forse anche dopo, il suo nome non dice nulla al paese reale, alle nuove generazioni – e non per un discorso di prestigio artistico, ma semplicemente perché la clientela per cui Pilati ha lavorato finora è minuscola se comparata al mercato globale dell’abbigliamento, sempre più saturo e sempre più diviso tra chi ha moltissimo e chi quasi nulla. Lo stesso vale praticamente per ogni altro designer oggi tranne forse Giorgio Armani e Donatella Versace per le generazioni più vecchie e Jacquemus o Alessandro Michele per quelle più giovani.
Buying something from Zara for the first time in at least a decade due to the Stefano Pilati collaboration. That it's pure wool and not disturbingly cheap defs part of it. This suit: pic.twitter.com/VYMvHPwgdN
— Will Absolute Horror (@ShowerAbsolute) October 4, 2024
Semplicemente, quella clientela così minuscola non paga più bene come una volta, non basta più a sospingere in avanti la carriera di un designer e del suo brand e dunque bisogna rivolgersi a un mercato di massa per farsi conoscere e riuscire a vendere. Non c’è nulla di male: anche il miglior designer attualmente in circolo, e cioè Jonathan Anderson, arrotonda collaborando con Uniqlo ogni stagione senza suscitare il minimo scandalo. Si può scendere a compromessi con il fast fashion se si abbandona l’elitismo tipico degli ambienti di moda e soprattutto se si evita di pensare che questa grande distribuzione inquina il pianeta più di quanto si sforzi di ripulirlo. Non di meno, questa strategia rimane doppiamente valida in un momento in cui il mercato del lusso è bloccato nella trappola dei prezzi rialzati che non può (almeno pubblicamente) far scendere ritrovandosi, paradossalmente, ostaggio di se stesso e sempre più lontano dal segmento del middle market e dei clienti aspirazionali che, grazie alle collaborazioni stesse, non hanno più troppe remore a comprare un capo "firmato" da Zara, Uniqlo o H&M se c'è di mezzo un buon brand. Forse un giorno le collaborazioni di Zara saranno davvero tutto quello che riusciremo a permetterci.