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Morfologia dei manichini

Su perché cambiano e cosa dicono di noi

Morfologia dei manichini Su perché cambiano e cosa dicono di noi
Vivienne Westwood's Sex store, circa 1971
Fiorucci store in New York City, 1980
Mary Quant's Bazaar store, 1960
Gucci's FW18 storefront in Milan
Calvin Klein's New York store in the '90, designed by John Pawson
Bottega Veneta store in Paris, 2023
Jacquemus' Capri store, 2024
Casa Loewe in Seoul, 2024
Nike's first plus size mannequin
American Apparel, 2015

I manichini sono una costante nella storia della moda, un elemento che come i trend è in continuo mutamento. Se i vestiti che indossiamo ci rappresentano, la moda a cui aspiriamo incarna i nostri ideali. Non solo politici o filosofici (come il rifiuto del fast fashion o la corrente del minimalismo, per esempio), ma anche fisici: l'abito è un mezzo d’espressione, il corpo la tela su cui compare. Ciò che si ritrova in passerella altro non è che la sedimentazione finale di tutti gli avvenimenti socio-politici che si sono susseguiti in precedenza - basti pensare che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i manichini in vetrina erano diventati non solo più magri a causa della crisi, ma anche più corti di 2 centimetri, oppure che negli anni ’80 hanno cominciato ad avere gli addominali. Di fronte a un mondo dilaniato dalle guerre e dal capitalismo ormai giunto al suo ultimo stadio, la moda risponde all’incertezza del suo pubblico offrendo un finto senso di sicurezza con i cosiddetti “core”, estetiche pronte per l’uso che fanno leva sul fattore nostalgia. Come il Cottage-Core, il Dark Academia e l’Indie Sleaze, anche i manichini sono diventati vittima di questa semplificazione: con l’ascesa del quiet luxury, di collezioni sovrassature di accessori e di prodotti dal design schietto (e per questo più vendibile), stanno diventando tutti uguali, a volte scomparendo persino dalle vetrine, sostituiti da grucce minimal o installazioni artistiche. Non prendetevela, quindi, con un brand che ha scelto manichini troppo magri: non sono altro che un segno dei tempi che stiamo vivendo.

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Vivienne Westwood's Sex store, circa 1971
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Fiorucci store in New York City, 1980
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Mary Quant's Bazaar store, 1960
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Calvin Klein's New York store in the '90, designed by John Pawson

Greta Tafel, ex WW Visual Merchandising Designer per Gucci, ricorda benissimo gli anni del massimalismo di Alessandro Michele, alla direzione creativa della maison dal 2015 al 2022. Raccontando delle vetrine più particolari con cui ha dovuto lavorare, rammenta «quella volta in cui hanno dovuto rappresentare una piscina», o un’altra in cui ha voluto vestire «degli alieni, proprio delle opere d’arte». Gli anni dei casting e delle collezioni così espressivi adesso sono lontani, come quelli in cui i manichini raccontavano storie così fantastiche da attirare l’attenzione dei passanti. Erano gli anni in cui la diversità veniva premiata, in cui la bellezza “particolare” era considerata la migliore amica del marketing. A partire dal 2020, dopo un periodo in cui la moda aveva cominciato a immergersi, seppure solo fino alle caviglie, nel trend della diversità - nel 2017, uno studio aveva dimostrato che il 100% dei negozi della high street di Londra aveva manichini “sottopeso”, mentre due anni dopo Nike ha lanciato i suoi primi manichini plus-size e paralimpici in store - i brand hanno però interrotto il processo di “ridimensionamento” dei propri modelli. Attenzione però: non si è trattato di un vero e proprio dietrofront, bensì di una sorta di «appiattimento», dice Tafel.

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Bottega Veneta store in Paris, 2023
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Casa Loewe in Seoul, 2024
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Jacquemus' Capri store, 2024

«In generale, adesso si tende maggiormente al minimalismo, gli atteggiamenti e le pose dei manichini sono molto più standard. Penso che possano essere interpretati come se fossero uno specchio neutrale: vedendo un capo su qualcosa di completamente astratto e fine non vieni influenzato dal corpo, dallo sguardo o dall’acconciatura che lo indossa». Tantopiù, liberandosi di ogni qualsivoglia riferimento culturale, direttori creativi e maison di lusso sono riusciti a scappare definitivamente dalla morsa che la cancel culture esercitava sulla industry durante gli anni della moda inclusiva. «Una volta mi era capitato di dover pensare a delle parrucche anni ‘80 da mettere ai manichini - racconta Tafel - ma abbiamo riscontrato un sacco di problemi, dall’America ci avevano comunicato che qualsiasi tipo di capigliatura che richiamasse anche solo vagamente le acconciature Afro era altamente sconsigliato e malvisto». Praticamente, togliere dai riflettori i “corpi” dei manichini, le loro espressioni facciali e persino i loro capelli, ha offerto ai brand piena neutralità sia dal punto di vista commerciale - tutto ciò che potrai guardare saranno i vestiti - che politica - tutto ciò che potrai giudicare saranno, indovina un po’, i vestiti. 

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Gucci's FW18 storefront in Milan
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American Apparel, 2015
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Nike's first plus size mannequin

La teoria dietro la “neutralità politica” dei manichini esili che si stanno vedendo nelle principali vetrine di tutto il mondo ha anche una spiegazione scientifica. Partendo dal presupposto che la forma di un manichino, come l’interior design di un negozio, può influenzare le tendenze d’acquisto dei consumatori, uno studio dell’Università del South Carolina ha dimostrato che le persone sono più inclini allo shopping quando circondate da pupazzi semi-realistici a causa «della mancanza di dettagli distintivi che potrebbero introdurre pregiudizi». Anche se l'esempio di Gucci dimostra chiaramente come l'inserimento di riferimenti culturali ricercati in vetrina possa esporre i brand al rischio di accuse di appropriazione culturale, in passato ci sono stati marchi in grado di cavalcare la linea che separa la cattiva dalla buona pubblicità con orgoglio: nel 2015, American Apparel aveva esposto nelle vetrine di New York manichini con grandi ciuffi di peli sul pube, un look che aveva procurato al brand grandi ondate d’odio ma anche nuovi fan, che avevano apprezzato la presa di posizione dell’azienda in un periodo in cui gli Stati Uniti stavano combattendo con le affermazioni misogine dell’allora futuro Presidente Donald Trump. Questo per dire che, nonostante per adesso la “neutralità politica” dei manichini scarni rappresenti un porto sicuro per i brand, prima o poi arriverà il momento di ritirare le ancore, di spianare le vele e di rischiare di nuovo

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«Non escludo che arriverà il momento in cui le vetrine diventeranno degli schermi led wall con finte proiezioni tridimensionali, ologrammi e chissà quant'altro» dice Tafel, certa che anche se i manichini stanno diventando sempre più sottili, non scompariranno mai. «Spesso è molto più comodo avere i capi sulle grucce o piegati per farli solamente toccare o provare, mentre a volte, in caso di presentazioni con un minor numero di capi, la presenza del manichino crea più dinamicità: tutto dipende dalla forza del brand», aggiunge. Un primo assaggio dei manichini del futuro arriva da Zalando, la piattaforma di e-commerce che ha appena lanciato i camerini virtuali, uno strumento in cui è possibile visualizzare su un manichino delle nostre esatte dimensioni i capi che intendiamo acquistare online. A giudicare dal fermento che ha suscitato la nuova tecnologia, motivata da uno studio di Zalando che dimostra che i camerini causano ansia e frustrazione, è possibile che presto ci ritroveremo in boutique con un manichino della nostra esatta taglia. Sarà allora che, dopo anni di diete a base di quiet luxury e altre estetiche prefabbricate, i manichini avranno finalmente qualcosa di buono da raccontare: il nostro stile personale.