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Il “Made in Italy” è messo abbastanza male

Ma non tutto è ancora perduto

Il “Made in Italy” è messo abbastanza male Ma non tutto è ancora perduto

La filiera produttiva italiana non sembra in buona salute come l’industria della moda vorrebbe farci credere. Come emerge da un’inchiesta di MF Fashion firmata da Andrea Guolo e Matteo Minà, la situazione dei distretti italiani della moda appare critica, con una drammatica moria di imprese e un’impennata nell’uso degli ammortizzatori sociali. Le regioni più afflitte sono la Toscana, le Marche e la Campania – e cioè alcuni dei centri più nevralgici per l’intero apparato del Made in Italy. Secondo il report di MF Fashion, i segnali di rallentamento erano già visibili nell’estate del 2023, con un crollo degli ordini tra i fornitori di materiali nella primavera dello stesso anno. Da allora, la crisi si è intensificata e le previsioni di un'inversione di tendenza rimangono incerte. Anche durante la Milan Fashion Week, tra insider del settore, si sussurrava di famosi brand che chiudevano in silenzio intere fabbriche per tagliare le perdite dei propri fatturati (ironicamente, solo pochi giorni fa Bernard Arnault ha detto che l’artigianato è l’unica via per uscire dalla crisi) e in effetti già nei primissimi giorni di agosto l'analisi statistica trimestrale di Unioncamere parlava di oltre 300 aziende chiuse soltanto in Toscana nella prima metà dell’anno: pelletterie, concerie, tintorie, produttori di borse e di accessori venduti nelle migliori boutique del mondo. A Firenze e Pisa, le ore di cassa integrazione per i settori pelli, cuoio e calzature sono aumentate vertiginosamente, passando da oltre 865.000 nel primo semestre del 2023 a più di 3 milioni nello stesso periodo del 2024. Come dichiarato da Simone Balducci, presidente della CNA Federmoda di Firenze, sono 220 le imprese della pelle che hanno chiuso nel secondo trimestre del 2024. Nello stesso periodo, le richieste di cassa integrazione per il comparto artigianale toscano sono aumentate del 170% rispetto all'anno precedente, interessando oltre 1.600 lavoratori.

Dov’è che le aziende stanno chiudendo?

I problemi non sono solo in Toscana, che comunque resta la più colpita da questa emorragia di attività industriale. Nelle Marche, sono stimate circa 1.000 chiusure di piccole imprese tra giugno 2023 e giugno 2024. La Cna Fermo, per bocca del direttore Andrea Caranfa, esprime preoccupazione per la possibilità che, quando la ripresa arriverà, il sistema di produzione conto terzi possa non essere più disponibile, colpendo direttamente le piccole aziende del territorio. Il settore calzaturiero di Fermo ha subito il picco più alto delle chiusure: 1.430 imprese svanite tra 2019 e 2024, di cui mille solo nell’ultimo anno. Anche qui, le ore di cassa integrazione sono cresciute del 212,1% in un anno . In Veneto, la mancanza di ordini ha costretto molte piccole imprese a chiudere – una crisi che, secondo Giuliano Secco, presidente della moda di Confartigianato Treviso, è aggravata dal dilagare dei laboratori clandestini (come quelli scoperti nelle inchieste su cui indaga il tribunale di Milano) e dalla carenza di personale qualificato. In Emilia Romagna, nella zona di Carpi, almeno 100 aziende hanno chiuso dal 2019, e la crisi si è intensificata soprattutto nell’ultimo anno. Mentre in Campania, circa 250-300 aziende tra pelletteria e calzature delle aree di Napoli e Caserta, per un totale di circa 8.000 addetti, hanno richiesto ammortizzatori sociali. Una delle costanti che emerge dalle considerazioni che si sono fatte in questi mesi sulla crisi, in effetti, è stato l’immediato ricorso all’assistenzialismo, legittimo quando l’istanza viene dai lavoratori, meno quando viene proposto dai manager. Per risolvere dei problemi che sono chiaramente strutturali servirebbe insomma ristrutturare un sistema di cui si lamentano rigidità e arretramento ma con un occhio al lungo termine delle riforme piuttosto che al breve termine delle ore in cassa integrazione.

Come uscire dalla crisi

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I problemi, in questo caso si sono accumulati. In settembre, Sergio Tamborini, amministratore delegato di Ratti spa e presidente di Sistema Moda Italia, ha spiegato a Il Sole 24Ore la dinamica della crisi: «Venivamo dal periodo post Covid che ha rappresentato una liberazione grazie anche all’impennata dei consumi, creando quasi una bolla con continue crescite a doppia cifra. Soldi non spesi negli anni precedenti e che ritornavano sui mercati nello stesso momento. Sicuramente un fenomeno con un evidente aspetto di tipo psicologico non secondario». Ma dopo il boom iniziale è arrivata la stoccata del rialzo del costo del denaro e dell’aumento dei mutui: la preziosa classe media di tutto il mondo ha smesso di spendere come faceva e anche in mercati come Cina e Corea dove «la tendenza è quella di un aumento dei consumi verso i marchi locali. Un po’ perché il rapporto con l’Occidente si è fatto via via più complesso […] Vedo una tendenza culturale e politica che va verso l’abbandono dei modelli occidentali e questo si riverbera anche sull’acquisto di prodotti che sono per loro natura prima di tutto culturali». A questo si è aggiunto anche il boom del secondhand: «L’aumento del riuso, degli abiti usati, incide chiaramente anche sui consumi».

Per quasi tutti gli intervistati da MF Fashion, comunque, la formazione e l’innovazione tecnologica sono la via d’uscita a lungo termine. Simone Balducci: «Serve superare il concetto di monocommittente, magari puntando sui brand emergenti, vista la possibilità degli artigiani di lavorare su piccole commesse». Non manca comunque una relativa fiducia sulla ripresa che secondo alcuni dovrebbe arrivare nei primi del 2025 ammesso che l’ecosistema di piccole e medie imprese non esca troppo danneggiato dal periodo attuale. A inizio ottobre, Il Sole 24Ore titolava: «L’export resiste nonostante gli scenari di guerra». Secondo tutti comunque serve innovazione, integrazione tra il classico modello della manifattura e la speditezza delle nuove tecnologie digitali. Durante il Quinto Made in Italy Summit organizzato dalla testata, comunque, è stato Roberto Giovannini, partner KPMG, a riassumere la questione nella maniera più saliente dicendo che bisogna «smettere di parlare di resilienza e resistenza e parlare invece di visione e ambizione».