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La dura verità sul giornalismo, secondo Eugene Rabkin

Il fondatore di StyleZeitgeist ci racconta tutto quello che non si può dire ad alta voce

La dura verità sul giornalismo, secondo Eugene Rabkin Il fondatore di StyleZeitgeist ci racconta tutto quello che non si può dire ad alta voce

È mezzogiorno e siamo in caffè un po’ hipster di Parigi. Sto aspettando Eugene Rabkin, giornalista di moda naturalizzato americano, noto per il media di cui è fondatore, StyleZeitgeist e per il podcast omonimo. Di se stesso scrive “sono nato nell'URSS. All'età di quindici anni sono venuto a New York, dove vivo ancora, per inseguire il sogno americano. Ci sono voluti dieci anni di vita senz'anima a Wall Street per rendermi conto che quel sogno faceva schifo. Ho detto addio a tutto ciò e ho trovato la mia passione nello scrivere di moda e cultura.” Quando entra nella stanza non lo noto subito, ma la mise total black avrebbe dovuto farmi sorgere il dubbio, date le sue simpatie per le avanguardie e il sodalizio di lunga data con Rick Owens. Ordiniamo un cappuccino e iniziamo a parlare. Un’ora dopo stiamo ancora parlando. Nessun giornalista di moda è mai stato così onesto con me, per di più con la consapevolezza che stessi registrando. Dev’essere questo quello che si prova - penso tra me e me - ed essersi costruiti una carriera e un seguito tale da non avere paura di perdere niente con la propria onestà. Dev’essere questo che si prova ad essere realmente indipendenti, responsabili solo delle proprie parole. Il potere delle parole, quello che ci siamo dimenticati, in una società culturalmente schizofrenica, in cui non abbiamo più il tempo di guardare, metabolizzare, formulare un pensiero, figuriamoci un parere. Nel giornalismo di moda sembra che ci siamo persi per strada il diritto al parere o forse ce l’hanno sottratto con l’inganno. Con Rabkin ci siamo soffermati, con tutta la lentezza del mondo, a capire dove e quando è successo e se c’è effettivamente speranza di porre rimedio. 

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In un'intervista parlavi di un tempo in cui i capi di un designer potevano essere capiti solo da chi ascoltava un certo tipo di musica, chi faceva parte di un certo tipo di cultura, e solo chi conosceva quel tipo di cultura, quella musica, poteva coglierne i riferimenti e comprendere l'estetica. Al giorno d'oggi questo tipo di concetto, questo legame, è completamente sfocato. Cosa ne pensi? 

Sì, è così. Ho appena finito di scrivere un capitolo del mio libro al riguardo. Penso che negli ultimi 20 anni, il rapporto tra moda e cultura sia passato da simbiotico a parassitico, in cui la moda - soprattutto il lusso - si aggrappa alle arti per creare significato. Alla letteratura per esempio, di punto in bianco, per infondere senso a vestiti che non ne hanno più, perché sono solo merce. Quando il rapporto era simbiotico, c'era una connessione genuina tra il designer, l'artista, il musicista, chiunque fosse. Oggi succede davvero di rado, ed è una storia molto triste, perché mi sono innamorato della moda quando ho capito che potevano esserci connessioni culturali genuine tra moda, musica, arte e letteratura. Prima di allora pensavo che la moda esistesse solo per ostentare uno status, il ché, tuttavia, è assolutamente vero. 

Credo che alcuni brand allo stesso tempo stiano cercando, forse per nostalgia, di ricreare questa connessione, quasi ricostruendo la subcultura dall’esterno, ma in modo artificiale.

Penso che sia tutto falso e si vede. Vedi, è il tipico atteggiamento postmoderno. Perché manca la storicità, non ricordi, non sai da dove vengono le cose. Non conosci la storia. Quindi non resta che saccheggiare il passato per suggerimenti estetici e si crea questo pastiche, sai, perché non sai da dove vengono le cose. Ho fondato la StyleZeitgeist Academy per questo, per lo stesso motivo per cui ho iniziato a insegnare un corso di Storia della Moda Contemporanea alla Parsons. 

Affinché gli studenti avessero gli strumenti per capire, per analizzare la realtà.

Tutte queste aziende che fanno freddi calcoli sui dati dei consumatori, un'altra espressione di una mentalità neoliberale, dove un'entità non umana, come un brand, viene dotata di caratteristiche umane. E il fatto che i ragazzi non possano distinguere il vero dal falso è una vittoria per il neoliberismo. È una vittoria per il tardo capitalismo. In altre parole, le aziende esistono per una sola ragione: fare soldi. Rispondono solo ai loro azionisti. Non rispondono a nessun altro. Tutto il resto è PR.

Sono curiosa di chiederti se, come media indipendente, ritieni che un media con un’agenzia dietro, che si interfaccia dunque direttamente con i brand, sia ancora in grado di fare critica o se lo sia essenzialmente mai stata anche in passato. Nessun commento negativo, su nessuna sfilata, antipatie palesate a parte e giustificate da qualche sgarro o transazione. Tutte le riviste seguono lo stesso schema? 

Non è possibile se ti trovi nella situazione che hai appena descritto, dove devi costantemente lavorare con i marchi. Perché i marchi oggi sono diventati incredibilmente sensibili riguardo alla loro immagine e prima non era affatto così. Tutti dimenticano a cosa serve la critica. La critica esiste perché l'obiettivo è migliorarle. Basta tornare a riconoscere questo punto molto semplice. 

E succederà mai?

Penso che ce ne accorgeremo tutti presto. Siamo nel bel mezzo di questa realizzazione, che se la moda diventa noiosa, vale per l'intera industria. Sono stati Galliano e McQueen a rendere LVMH interessante, non il contrario. I ragazzi - che sono il cliente aspirazionale, il perno, la base - se ne stanno accorgendo, si stanno allontanando dalla moda, stanno scegliendo di comprare vintage. È questo dovrebbe mandare un segnale all'intera industria: non stai facendo cose eccitanti e se continui a fare cose noiose, perderai persone, perché nessuno ama sentirsi insultato nella propria intelligenza.

Penso che questa uniformità che vediamo nella campagne, nelle collezioni, tutti questi sfondi bianchi con enormi loghi e vestiti ordinari, siano un segno palese del fatto che i direttori creativi sono spaventati, spaventati di avere una visione, di prendere una posizione. Tutta questa nostalgia perché si ha paura del futuro.

E sai perché hanno paura? Perché vogliono rivolgersi al maggior numero possibile di persone, per poi finire con questa massa noiosa e insipida. 

Anche il giornalismo è una massa noiosa e insipida.

L’ascesa degli influencer sta uccidendo il lato editoriale. Non c’è più giornalismo, c’è solo “content”. E quando le persone confondono giornalismo e “content”, è un problema serio. Perché il “content” non è giornalismo. Sono appena uscito da una sfilata prima di sedermi a questo caffè: sono rimasto stupito dalla quantità di influencer in prima fila e di editor in seconda fila. Ero affascinato da quante persone guardassero lo schermo del telefono mentre filmavano, invece di guardare i vestiti. Ma è il loro compito, registrare e trasmettere al pubblico, di certo non pensare. Quello che i brand vogliono è un canale broadcasting, una mera amplificazione del loro messaggio. Non vogliono alcun tipo di risposta. Non vogliono alcun tipo di conversazione intelligente. Ma poi gli influencer vendono davvero? Punto di domanda. Anzi, ho una domanda per gli influencer: se il vostro intero pubblico è composto da ragazzini di 13 anni a chi avete intenzione di vendere i vestiti costosi che filmate? 

Parliamo di giornalismo indipendente e nuovi media. So che stai usando molto Patreon, in Europa forse va più Substack. Come ti stai trovando?

Amo Substack e sono felice che esista. Permette ai giornalisti di bypassare il sistema delle riviste e parlare direttamente al loro pubblico. Ora il compito diventa: come costruisci un seguito senza il sostegno di una rivista? Ma può chiaramente succedere, pensiamo a Amy Odell per esempio. Non sono mai stato contro Internet in generale. Non sono mai stato contro queste piattaforme. Voglio dire, è il motivo per cui sono qui. Alla fine della giornata, la questione riguarda la qualità del giornalismo. La prossima generazione di giornalisti forse userà Substack. Il grande problema qui è: come si guadagneranno da vivere? Penso che i giovani non siano abituati a pagare per i contenuti di cui vogliono usufruire. I giovani devono essere educati al fatto che per il prezzo di una tazza di caffè (francese, non italiano) puoi sostenere un autore su Substack, contribuendo a un ecosistema giornalistico che può diventare più ricco grazie a te.

Per concludere: un consiglio per i giovani (designer, creativi, persone pensanti).

Prendete il vostro laptop e lanciatelo nella più vicino specchio d'acqua. Andate in biblioteca, andate in libreria. Scoprirete delle cose incredibili.