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Ci è ancora permesso criticare una sfilata?

Cosa sta succedendo tra Lyas e Dior

Ci è ancora permesso criticare una sfilata?  Cosa sta succedendo tra Lyas e Dior

Poche ore fa, Elias Medini, noto ai più come Lyas, influencer e fashion correspondent per Interview Magazine, ha postato un video su TikTok in cui raccontava di come, dopo aver criticato un recente show della Paris Fashion Week (non ha detto quale ma tutti sono pronti a scommettere su Dior) è stato contattato da un insider dell'industria. L’individuo gli ha prima chiesto perché avesse espresso un’opinione negativa e poi ha suggerito che la critica fosse alimentata da misoginia verso la designer donna – non una vera accusa ma più una specie di santimoniosa minaccia che trasforma il progressismo in un’arma. Sempre Medini ha poi scoperto che i dipendenti del brand andavano in giro gettando discredito su di lui, chiamandolo misogino e di parte. Questa storia rappresenta una realtà che tutti gli editor di moda - da molto prima degli influencer - devono affrontare: la censura da parte dei brand che senza alcun timore manipolano l’opinione dei giornalisti. I PR dei brand, infatti, oltre ad agire come punto di contatto tra l’azienda e la stampa, svolgono anche un ruolo segreto di polizia politica della moda – una polizia che punisce la replica e il dissenso e la cui prima e più visibile arma è una frase che inizia con «Ci dispiace moltissimo che tu abbia scritto…» e la cui mossa finale (questa mai dichiarata) è la scomunica dagli show e dalle attività del brand. È ciò che accadde a Cathy Horyn, che venne bandita dagli show di Saint Laurent dopo aver criticato Hedi Slimane e ciò che, silenziosamente, accade a tanti critici i cui cattivi giudizi vengono castigati con ghosting e depennamenti o che semplicemente non fanno critiche per paura di essere colpiti da un interdetto irrevocabile. Il che dunque ci porta a domandarci: si può ancora fare critica di moda?

@ly.as0

son original - lyas

Esistono due categorie di critici: quelli classici, che operano all’interno di un giornale che può o meno avere le proprie policy e i propri rapporti diplomatici da curare; e quelli nuovi, che pubblicano recensioni su qualunque social e in qualunque format. Ma se i primi potrebbero in effetti essere vincolati dalle leggi dei buoni rapporti, sono i secondi i più liberi  nel caso in cui non abbiano molto da perdere in termini di inviti, inserzioni o più in generale “accesso” alle attività del brand. Il tutto dunque cambia di caso in caso: sicuramente il lettore più arguto può benissimo rendersi conto che una certa stampa di moda istituzionale è asservita ai suoi inserzionisti proprio per la completa assenza di qualunque nota negativa – ma qui la questione riguarda la vera natura dei media di moda, e specialmente delle riviste, che sono più megafoni pubblicitari che pubblicazioni culturali. Non solo i magazine funzionano da sempre come agenzie per cui i brand sono clienti e inserzionisti oltre che attori dell’industria, ma oggi fungono più da broadcaster o “amplificatori” di una narrativa che viene stabilita dai brand e dai grandi gruppi industriali. Se lavoro con un certo brand non ne parlo male e la forma più accettabile di critica è il silenzio, se non si ha nulla di bello da dire non si dice niente. Il che è un problema perché i durissimi critici di un tempo avevano di fatto "allevato" designer talentuosi mentre quelli di oggi celebrano pro forma anche creativi mediocri, di fatto abbassando lo standard per cosa si intende come moda.

Certo, non sono solo i magazine a essere condizionati. Anche a un indipendente si può educatamente estorcere una recensione positiva, lasciandogli intendere che cambiando opinione le porte del paradiso gli saranno dischiuse. È ciò che è capitato in questi anni con Brenda Waischer che dopo aver lungamente criticato Dior è stata accolta ai suoi eventi e sfilate, ha cancellato tutti i vecchi tweet e saltato il fosso diventandone la cortigiana più entusiasta. Una strategia furba da parte dei brand che hanno i mezzi per trasformare i nemici in alleati. Altri non hanno enorme bisogno di persuasione diretta: basta la prospettiva della dolce vita, dei viaggi stampa e dei regali per creare simpatie e sostanzialmente acquistare indirettamente pubblicità positiva. In questi casi basta vedere sul loro feed a quali show sono stati invitati, di solito pochi e molto commerciali, dato che i media e i giornalisti più riconosciuti vengono invitati in tutti gli show e invece loro dipendono da uno o due brand che sono invariabilmente in difficoltà. Sia che si tratti di riviste che di influencer o critici indipendenti, comunque, i silenzi sono più eloquenti di certe parole. Una legge non scritta della stampa di moda: ciò che si omette, lo si è odiato – ricordatelo la prossima volta che leggerete il classico round-up di una fashion week.

È anche vero che la situazione di controllo e mantenimento dei ranghi nella critica di moda è stata causata da uno squilibrio di potere tra i brand e i media. Negli anni ’90 i critici erano dei leoni perché la stampa (e in generale il publishing) erano l’unico canale di comunicazione con il pubblico: fu una critica di moda, Carmel Snow, a battezzare il New Look di Dior per trovargli un nome; Diana Vreeland lanciò la carriera di Edie Sedgwik e fu la consigliera di stile di Jackie Kennedy; Isabella Blow trasse dall’oscurità Lee McQueen, Anna Wintour creò la carriera di John Galliano, Franca Sozzani coltivò quella di supermodelle e dei maggiori fotografi di moda attivi oggi. Con il sorgere dei social media le cose cambiarono. Se un tempo i giornalisti erano i gatekeepers della moda, lentamente chiunque poteva accedere agli show, scoprire nuovi brand, spargere la voce di un nuovo designer o trovare una nuova tendenza. I giornali e i loro critici persero il loro potere perché il successo di un brand non dipendeva più dalla pubblicazione cartacea ma dalla loro social media reach autogestita, da un endorsement o dalla viralità di un post. Nel tempo anche i critici peccarono di conservativismo: molti sono passati alla storia per essere sul lato sbagliato di essa, colpevoli di aver cassato le collezioni di giovani designer emergenti con opinioni antiquate salvo poi essere sconfessati dal successo di questi ultimi. Lee McQueen, Galliano e Marc Jacobs sono tra gli esempi più lampanti.

@showstudio With creative directors being booted out of brands more quickly than ever before, does it come down to the media? #fashiontiktok #showstudio #wordsofwisdom original sound - SHOWstudio

In breve, la critica oggettiva si trasformò (sia nel percepito che parzialmente nella pratica) e venne ridimensionata in mera opinione e il ruolo del giornalista non fu quello di valutare la qualità di una collezione ma di spiegarla, delegando al pubblico il compito di decretarne il successo o meno. Anche il pubblico divenne più sensibile al marketing diretto che alla stampa: se l’opinione che i giornalisti hanno di certi designer influenzasse le vendite, molti brand sarebbero morti e sepolti da anni. In un’intervista ad Highsnobiety, Hanan Besovic, ovvero @ideservecouture, ha detto: «Quando si criticano gli oggetti, c'è molto di più da prendere in considerazione. Prima si trattava solo di vestiti; ora critichiamo l'intera azienda e le decisioni che prende». Una frase che spiega anche un altro lato del dilemma che i critici di moda affrontano oggi: l’ipersensibilità dei brand a giudizi e opinioni anche indiretti. Oggi i PR di un brand non hanno la minima soggezione a chiamare in redazione perché il loro brand è stato menzionato collateralmente in un articolo che riguarda altro; a lamentarsi per un aggettivo non ostentatamente positivo, a una similitudine o a una remota associazione e in sostanza a intromettersi in ogni modo nell’attività editoriale di una pubblicazione. Se prima ci si arrabbiava, oggi si vuole intervenire.

Non è tanto la libertà di opinione o di stampa a non essere riconosciuta, ma la condizione di vassallaggio dei media a essere ribadita: il media è uno strumento, un canale - non deve pretendere autonomia, specialmente se può danneggiare il business. Ovviamente i brand non possono avere l'intera stampa in busta paga, ergo voci contrarie si leveranno ugualmente. Nemmeno il pubblico di Internet aiuta, dato il suo rigetto di qualunque opinione imposta dall'alto e la sua faziosità. Il modello di pensiero pluralistico e relativistico che abbiamo adottato come società, inoltre, punisce i netti schieramenti di opinione e i punti di vista singolare: se il critico non apprezza è perché ha un problema, ci sono tante persone che apprezzano e la loro opinione plurima invalida quella singola. Un tipo di argomentazione che potremmo chiamare il «Però vende» come a dire che l'estetica sia subordinata alla legge del mercato - anche se seguendo questa logica anche Shein vende dunque non lo si potrebbe criticare. Ciò che in logica formale viene definito “argumentum ad hominem” proprio come nel caso di Elias Medini in cui in sostanza è stato detto che se critica il lavoro di una donna, è un misogino. Molti dei problemi incontrati da un moderno critico di moda derivano dunque da una combinazione di tre fattori: il potere commerciale dei brand sulla stampa, la marginalità del lavoro di critica stesso e, infine, la perduta autorità dei critici nell’era della post-verità che devono affrontare un pubblico sempre più fazioso. La soluzione non esiste, l’unica cosa da fare è provare con tutte le forze di essere veritieri e oggettivi. E sperare che in redazione non arrivino telefonate.