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Paghereste mai 150$ per questa t-shirt?

C'è chi lo farebbe

Paghereste mai 150$ per questa t-shirt? C'è chi lo farebbe

Nel mondo del vintage esistono strane passioni. C’è chi colleziona basandosi sul decennio o l’annata, chi invece va cercando capi prodotti da uno specifico tipo di telaio  o un certo paese di produzione. Ma se negli anni passati a finire in cima alle wishlist erano capi relativamente sofisticati o storici, ultimamente è emersa una nuova categoria: le t-shirt bianche distrutte. Elemento costitutivo essenziale di qualunque guardaroba workwear (e per un lungo periodo simbolo stesso di un certo proletariato blue collar divenuto nel tempo assolutamente cool) la t-shirt bianca sembrerebbe a tutta prima uno di quegli indumenti che va sempre acquistato nuovo: sia perché proprio quelle bianche sono soggette più delle altre all’usura; sia perché, data la loro semplicità e intercambiabilità, una vale l’altra. Ma se un collezionista più preparato potrebbe apprezzarne il tipo di tessitura, il fit o determinati dettagli di composizione, la gran parte dei neofiti del mondo vintage sembrano innamorati proprio del loro stato di usura, al punto da fare cattivi affari - considerato il costo, che supera spesso i 150 dollari e in certi rari casi arriva a sfiorare il migliaio. Al momento, tra i listing da segnalare ci sono diverse magliette bianche di JC Penney, Hanes e Sears degli anni ’70 su eBay, altre simili su Grailed oltre che in certi forum specializzati, ma un elemento solleva dubbi: le t-shirt integre, sia bianche che non, costano molto poco, quelle distrutte invece superano il centinaio di dollari. Abbiamo chiesto a Giulio Marchioni, collezionista e rivenditore di vintage tramite la pagina @cocci.it che ci ha raccontato cosa si nasconde dietro il trend.

Per Marchioni a essere degne di attenzione non sono le t-shirt monocrome ma il loro stato di distressing: «Più che le t-shirt bianche, sono le t-shirt distrutte a essere inflazionate. Solo che quando sono bianche, il loro prezzo è più d’impatto», spiega. «Tutto quello che è simil-distrutto sta assumendo un valore allucinante ora perché il mercato va in quella direzione». L’attenzione dedicata alle maglie bianche, comunque, ha radici concrete: «La tematica di base è la differenziazione è tra le maglie prodotte negli anni ’50 e ’60 e quelle prodotte dopo. Prima le maglie erano in 100% cotone mentre dopo sono diventate per metà in cotone e per metà in poliestere perché hanno una forma migliore, al tatto sembrano più belle e si rovinano anche molto meno. Tutte le maglie in cotone diventavano lise, si rovinavano molto prima e dunque è facile trovare maglie che hanno sessant’anni di vita bucate e distrutte con quel tipo di distressing», dice Marchioni spiegando che proprio per queste maglie bianche più vecchie «l’esposizione al sole dà effetti di fading molto più prorompenti rispetto alle maglie miste. All’inizio del trend c’è stata l’unione delle due cose: maglie anni ’50, ’60 e anche anni ’70 tutte rovinate, che cominciavano a bucarsi e avevano queste sbiaditure incredibili. Allora hanno acquistato valore». Fino ad allora, comunque, i prezzi non erano lievitati – almeno finché qualche venditore ci ha visto un’opportunità di business. «Con l’hype che ha questo stile, tutti stanno danneggiando o facendo sbiadire le proprie in modi artificiali e dunque la riconoscibilità tra ciò che nel tempo si è distrutto e ciò che è stato creato per andare ora sul mercato scompare». 

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Sarebbe insomma l’hype e il tentativo di (ci si passi il termine) lucrare su una clientela recente, poco critica e ansiosi di saltare sul treno del trend più recente che ha creato il fenomeno di queste semplici magliette rovinate. «Tutti quei prezzi altissimi che sono fuori da ogni logica del mercato vintage», spiega Marchioni, «non sono pezzi che hanno quel valore sul vero mercato. Sono lì per accaparrarsi un pubblico che non ne capisce nulla e vuole solo quell’effetto distrutto. Magari ci sono maglie che hanno appena quindici o dieci anni e sono state danneggiate apposta». Per Marchioni, comunque, il trend del distressing deve ancora raggiungere il suo zenit – momento in cui dovrebbe anche emergere una mania per lo splattering, ovvero per macchie di vernice o colore come quelle stampate da Helmut Lang sui jeans già negli anni ’90. È stata la moda in realtà la prima a simulare il distressing: ci fu Raf Simons nel lontanissimo 2002 che creò un effetto “usato” rovinando i capi della sua collezione FW02 più famosa col titolo di Virginia Creeper; più di recente, poi, ci sono stati brand come Diesel e Balenciaga che hanno molto ricamato sugli abiti rovinati ma nella cultura contemporanea è stato soprattutto Our Legacy che ha avuto l’intuizione di stampare digitalmente il distressing su denim in realtà integri, dando all’intero processo di falsificazione storica un nuovo e brillante supporto concettuale. In breve: se la t-shirt bianca vintage che volete comprare è ridotta come uno straccio è perché probabilmente è uno straccio.