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La moda italiana è un paese per vecchi

Quand’è che i nostri designer hanno smesso di guardare al mondo?

La moda italiana è un paese per vecchi Quand’è che i nostri designer hanno smesso di guardare al mondo?

La moda di Milano non è altro che un’estensione, una rappresentazione del momento storico che la città stessa sta attraversando. Da un lato la Milan Fashion Week dall’altro la vera città di Milano, in mezzo le nuove generazioni, smarrite e affrante. Ancora oggi, molti continuano a sostenere che, per vendere, la moda debba regalare un sogno, offrire un nuovo mondo – eppure, negli ultimi anni, provando a regalare quel sogno l’intera industria è andata distaccandosi dalla realtà, creando un intero universo culturale oltre che un’aura di desiderabilità intorno a prodotti resi poi inaccessibili. Nel tempo, il potere del mito della moda, coniugato ai prezzi in ascesa e alla qualità in discesa, ha permesso la nascita di una scollatura, di uno spazio vuoto tra realtà e finzione in cui il mercato del fast fashion ha trovato un terreno fertile da cui trarre potere. Oggi, grazie a una moda sempre più commerciale, quel mondo continua a crescere sia in termini di percezione che di vendita, offrendo imitazioni dei modelli visti in passerella, sfamando i trend alla loro nascita e riducendo sempre di più quella separazione tra boutique e centro commerciale che un tempo separava il design più alto da quello più dozzinale – riducendo dunque le Fashion Week al termometro che segnala lo stato di salute delle città che le ospitano. 

E cosa ci dicono le fashion week milanesi sulla città? Pensiamo al momento che sta attraversando: una metropoli che fa fatica, dopo i fasti dell’Expo, a continuare ad essere il cosiddetto regno delle possibilità soprattutto per le nuove generazioni, che tra il problema degli affitti alle stelle e l’impossibilità di avere spazi culturali di scambio, si sentono perse e sfiduciate. La Milano di oggi fa fatica a farsi solo amare e quindi ci ritroviamo a odiarla un po’ ma non dobbiamo dimenticarci che è pur sempre il grande e forse unico  palcoscenico dove ogni giorno va in scena l’Italia. Ma sul piano culturale, una moda che non dialoga con la realtà è una moda poco interessante, poco concreta, che strizza l’occhio in maniera nostalgica al passato, dimenticandosi il futuro dei giovanissimi, che perdono interesse e rifiutano il modello milanese. Milano è una città complessa per i più giovani così come la moda milanese sembra sempre più destinata ai vecchiMa anche se non sappiamo con certezza a quale fascia d’età sia destinata questa moda, possiamo provare a calcolare la fascia d’età media di chi crea questa moda. Analizzando l’età media dei direttori creativi dei principali show delle capitali della moda, infatti, emerge che Milano e Parigi sono le città “più vecchie” con designer che in media hanno 48 anni mentre a Londra l’età media si abbassa notevolmente a 41 anni di media e a Copenhagen arriva a 39. Eppure, a Milano e Parigi, i direttori creativi che hanno meno di quarant’anni sono rispettivamente dodici e quattordici, contro i ventidue di Londra e i 19 di Copenhagen – nel calendario di sfilate di quest'ultima città il 40% dei designer ha meno di 40 anni, percentuale che scende al 28% per Milano e Londra e a 23% per Parigi. 

La moda italiana è un paese per vecchi Quand’è che i nostri designer hanno smesso di guardare al mondo? | Image 531044
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In effetti, basta guardare le passerelle per rendersi conto che manca quello che aveva caratterizzato gli ultimi anni: capi che fossero un riflesso dei tempi, capaci di sintetizzare un gusto, un sentire o comunque un aspetto anche simbolico della realtà. Le passerelle milanesi non raccontano, o lo fanno a stento, gli ideali e i valori delle nuove generazioni, vogliono vestire solo i ricchissimi e gli annoiati, trasformando Milano in un grande member club dove so ha bisogno della tessera e di esibire il proprio reddito per “vivere”. In tale direzione è sintomatico il numero di nuove aperture di member club sulla scia di quanto sta facendo Casa Cipriani che, nel suo ultimo statement finanziario sull’anno del debutto registrava 20,2 milioni di euro in ricavi. E non ci sono solo il sorgere di Soho House, The Wilde, Core Club, Aethos e Ariosto Social Club o ma anche lo straordinario fenomeno del traffico di ricchi e ultraricchi internazionali e specialmente inglesi che si stabiliscono in città per favorire di un regime fiscale più clemente che nel regno unito. Questo sbilanciamento nella “destinazione d’uso” della città, che è passata da uno dei cuori universitari d’Italia a un’enclave di mega-ricchi, fa della città una specie di acquario dove chi è più giovane è costretto a guardare la vita dei vecchi senza veramente scontrarsi ideologicamente con essi, ma in una guardinga diffidenza reciproca. La distanza tra vecchio e nuovo mondo, tra Montenapoleone e Primark, tra i ricchi di Montenapoleone e i maranza di Barona, tra le passerelle e la città, appare insuperabile.

 

La Milan Fashion Week quindi non è altro che uno specchio di Milano, con la differenza sostanziale che sui temi attuali il Comune ha aperto un dibattito tra quello che funziona, quello che non va e quello che deve migliorare cercando di creare e di ritrovare degli spazi che possono favorire le interazioni tra chi c’era e chi arriva. Nel mentre la moda continua ad utilizzare paradigmi obsoleti, linguaggi stantii, lontanissimi dalla realtà non accettando il suo stato di moribondo e proponendo come unica soluzione l’innalzamento dei prezzi. Oggi più che mai le passerelle milanesi devono sparire e trasferirsi in strada tra le persone, per costruire community e ponti che connettano culture e mondi diversi: un brand è eccitante nella misura in cui aderisce e comunica col reale – se se ne distacca, rinunciando a interpretare i tempi e perdendo interesse verso la modernità, non è più moda ma merch per ricchi. Il disamore che serpeggia in città contro la moda, spesso tra i fashion worker stessi, è un disamore verso la città stessa e le sue promesse mai esaudite: una moda che si fa odiare non ti fa amare Milano.