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Alla Milan Fashion Week SS25, uno scontro tra sincerità e strategia

Cosa distingue un brand di moda da un produttore di abbigliamento di lusso?

Alla Milan Fashion Week SS25, uno scontro tra sincerità e strategia Cosa distingue un brand di moda da un produttore di abbigliamento di lusso?

«È il potere della sincerità su quello della strategia», ha scritto Mathieu Blazy nelle note della sua ultima collezione SS25 di Bottega Veneta – uno degli highlight della Milan Fashion Week appena conclusasi. Una frase che, pur nella sua equilibrata neutralità, illumina senza cerimonie qual è il nodo del problema della moda oggi: la scarsa “sincerità” dei designer, la cui creatività è parsa per lo più troppo filtrata e distillata da team amministrativi, di marketing e di merchandise. In termini forse più prosaici, da uomo d’affari, anche Marco Bizzarri ha detto la sua, durante una conferenza sul lusso da Mediobanca: «Una delle ragioni per cui oggi il settore sta soffrendo è che non c’è novità sul mercato. Nessuno crea più o osa più, i direttori creativi sono un po’ imbrigliati da vincoli, mentre necessitano di più autonomia nel loro rapporto con i CEO». Parole che fanno lampeggiare in mente la prima puntata di In Vogue in cui si racconta di come, ai tempi del rilancio di Dior negli anni ’90, Arnault avesse dato a John Galliano un assegno in bianco dicendogli di rimettere il brand sotto i riflettori a qualunque costo. La storia della moda insegna in effetti che spesso un direttore creativo a cui sia data carta bianca consegue spesso il famigerato “effetto wow” che oggi si pensa di poter ottenere disciplinando, controllando e chiudendo la creatività nelle caselle dei bilanci preventivi. E in effetti i migliori show della stagione milanese sono stati quelli in cui si percepiva la sincerità, la gioia, l’agio dei designer: Francesco Risso da Marni, Simone Bellotti da Bally, il già citato Blazy di Bottega Veneta e Glenn Martens da Diesel.

Ma l’inventiva non è mancata questa stagione a un’intera schiera di altri designer: il pensiero va a Sabato de Sarno che da Gucci ha iniziato a dare una forma compiuta al suo linguaggio di design, alla reinterpretazione che Filippo Grazioli ha fatto della joie de vivre di Missoni, emancipatosi finalmente dalla tirannia dei maglioni; va all’atmosfera dello show di The Attico, brand che secondo i nostri pronostici va sempre più ammantandosi di quella “milanesità” quintessenziale a cui tanti aspirano ma in una versione giovanile che esula dallo stanco topos della sciura; va anche a Sunnei i cui creatori, Loris Messina e Simone Rizzo, hanno capito da oltre un decennio che non serve avere una grande idea ma semplicemente un’idea fresca per far balzare agli occhi una collezione. Altrove la fantasia di numerosi designer è parsa troppo regolata da un comitato esterno, troppo recintata da linee guida e obiettivi di crescita trimestrali per avere la disinvoltura che serve a uno show per sfondare. Una sorta di insipienza creativa (secondo noi non dovuta ai designer ma ai loro CEO-babysitter) che si è manifestata in un continuo ricorrere alla nostalgia e all’auto-citazionismo – la più sicura spia di direttori creativi che hanno più fiducia nel passato che nel futuro o a cui, semplicemente, non frega più nulla. Non è un mistero per nessuno che a Milano ci sono brand che potrebbero serenamente sparire domani senza una lacrima venga versata: vecchi bastioni del lusso che non è conveniente né abbattere né ristrutturare e che dunque esistono perché devono, in un disinteresse generale che, strano a dirsi, non è facile da percepire subito data l’estrema piaggeria che da sempre infesta il sistema della moda. 

@nssmagazine

Deceptacon - Le Tigre

La soluzione a questa fase di stasi è diversa per ciascun brand. Se negli anni passati il problema era che una narrativa roboante veniva applicata ad abiti che, in negozio, altro non erano che merch logato; oggi pare che tutto si sia appiattito sul prodotto fornendoci una sequela senza fine giacche-camicie e linee workwear. Ciò che manca è la sensazione di approcciare una collezione come la testimonianza e il derivato di un gusto preciso, la concrezione di una personalità definita: il pubblico vuole ubriacarsi di autorialità come ci si ubriacherebbe di un vino – è il motivo per cui ancora il mondo dei media torna ossessivamente sugli show di Galliano, Ford e McQueen, un trio di creativi che in effetti emerse quando la moda post-anni ’80 era sempre più “vecchia” e imbalsamata proponendo estetiche visceralmente intense. In verità, proprio come succedeva allora, la sensazione è che la moda si trovi in una bolla autoreferenziale dalla quale non si scorgono più le ispirazioni derivanti dalla modernità. A Londra, pur mancando i grandi nomi che ha l’Italia, la barriera tra la strada e la passerella è assai più permeabile e i designer creano con i giovani in mente – l’età media del target dei designer milanesi è sicuramente più matura. I brividi di giovanilismo li offrono i progetti più underground come il già noto AVAVAV e quello di HG/LF che nell’ultimo giorno della fashion week ha organizzato non una sfilata ma uno spettacolo teatrale intitolato A Call to Dreamers of Fallen Systems riunendo un’audience di giovani appassionati che si sono ritrovati nel romanticismo rabbioso e dissidente che trasudava dagli abiti: nella crudezza della presentazione, si sentiva pulsare una vita.

Lo scrittore e filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila scrisse negli anni ’70 che «la volgarità è pretendere di essere ciò che non siamo». In tal senso, tanti brand qua a Milano non hanno ancora capito chi dovrebbero o vorrebbero essere, e pretendono comunque di essere qualcosa. I risultati sono formalmente buoni ma alla lunga frustranti: se il punto della moda fossero i bei vestiti, le fashion week si svolgerebbero in un centro commerciale. L’identità di un brand non è un punto a cui approdare ma la retta su cui si allineano la visione del designer, i desiderata del CEO e le aspettative del pubblico. Un allineamento difficile da trovare ma che stabilisce la demarcazione tra brand che costruiscono un’identità coerente e tridimensionale e brand che producono abbigliamento particolarmente costoso.