Vedi tutti

“In Vogue” è la favola di una moda che non c’è più

Il documentario su Disney+ è così bello che ci fa rimpiangere il passato

“In Vogue” è la favola di una moda che non c’è più Il documentario su Disney+ è così bello che ci fa rimpiangere il passato

Negli ultimi tempi diversi film e documentari si sono concentrati sul raccontare e ri-raccontare le alterne vicende della moda anni ’90. In pochi mesi, il lungo intreccio di vicende che vede incontrarsi e scontrarsi John Galliano, Lee McQueen, Marc Jacobs e Tom Ford, iniziato nei primi anni ’90 e finito in una specie di disastro aereo all’inizio degli anni ’10 è stato esplorato da High & Low, dedicato per intero a Galliano; alla docuserie Kingdom of Dreams su Sky e, adesso, a In Vogue, i cui primi tre episodi sono usciti da poco su Disney+. E anche se su tutti e tre aleggia il sospetto della retorica e della propaganda (il complottista che è in noi pensa subito a una grande operazione di marketing che ha dietro i soldi di LVMH e Condè Nast) va detto che proprio quest’ultima docuserie, tratta dal podcast che Vogue creò ai tempi del lockdown, è forse la migliore. E lo è perché forse nessun’altra entità al mondo possiede tante connessioni, tanti materiali d’archivio, tanta memoria storica per far raccontare l’epopea della moda del nuovo millennio alle leggende che l’hanno creata. Il cast della docuserie è sconvolgente: Anna Wintour in primis, con Edward Enninful, Hasmish Bowles e Grace Coddington dal team di Vogue; Naomi, Kate Moss, Amber Valletta e letteralmente ogni altra supermodel vivente; e tra i designer Miuccia Prada, Tom Ford, Marc Jacobs, Donna Karan, Tommy Hilfiger e Stella McCartney per parlare solo dei principali ma ci sono anche Gwyneth Paltrow, Sarah Jessica Parker, Kim Kardashian. La storia è interessantissima, illuminante per certi versi, e non glissa nemmeno sugli aspetti più spiacevoli dell’impero del lusso, pur senza approfondire troppo, ma alla fine delle tre puntate (e in attesa delle ultime tre) il bel sogno della serie lascia spazio a un senso di rimpianto.

Più che una storia sugli affari che stanno dietro il mondo dei grandi brand (per quello c’è Kingdom of Dreams), In Vogue è una storia culturale che ripercorre i diversi momenti e le diverse fasi che andarono dalla stagnazione della moda a inizio anni ’90 fino alla sua strabiliante ripartenza, ripercorrendo l’era del grunge, il dibattito sull’heroin chic, l’era della Cool Britannia, la nascita dell’asse Moda-Celebrity e il sorgere di nuovi media. E il racconto è fatto nella maniera migliore, ovvero per un’alternanza di panorami storici narrati dai diversi protagonisti e stupendi aneddoti che fanno emergere il lato più umano di questi giornalisti, creativi e modelle che hanno fatto la storia dell’industria. Ma allora perché si sente rimpianto? Perché nel seguire l’ascesa di questi designer, Galliano e Jacobs in primis, si ha come l’impressione che quell’enorme successo, quegli eventi così spettacolari e in generale quell’era iper-creativa fossero il frutto di un’atmosfera più spontanea e feconda di idee che oggi si è persa per colpa di infinita burocrazia e formalità finanziarie senza fine, ma anche per un enorme allargamento degli orizzonti oltre che per una certa dispersività portata dai social - un tempo le top model non erano più di dieci, non esistevano influencer e micro-celebrities come anche personalità di internet. Metà degli aneddoti che si sentono nelle prime tre puntate riguardano momenti assolutamente iconici (certi photoshoot con Naomi o Kate Moss, la fama istantanea di Marc Jacobs e Tom Ford, i diversi “salvataggi” che costellano la carriera di Galliano, il leggendario servizio di Vogue sul grunge) scaturiti da situazioni di completa informalità e disorganizzazione o di assoluto rischio creativo che nella moda di oggi non sono semplicemente possibili. 

Il racconto del backstage della collezione Dante di McQueen, gli editoriali di Kate Moss per i-D scattati negli scantinati di Londra con vestiti alla buona e nessun trucco, le top model del momento che si presentano allo show universitario di Stella McCartney per farle un favore o fanno svoltare la carriera di figure come Enninful o Galliano prestandosi a servizi fotografici e sfilate a puro titolo di favore personale. «We were all in the same room», dice a un certo punto Stella McCartney riferendosi al fatto che per diversi anni i futuri protagonisti di un’avanguardia e di un’industria da trilioni di dollari andavano tutti insieme allo stesso pub. La storia dello show FW95 di Gucci, quello che lanciò Tom Ford, per il quale al designer venne data carta bianca dato che il brand stesso non aveva più nulla da perdere, sarebbe impossibile da replicare oggi: il marasma della folla, i look e i design che nessuno aveva approvato, Ford stesso che gestisce tutto da solo senza approvazioni di sorta nel backstage per poi uscire e inchinarsi in aperta rottura del suo contratto – la moda oggi saprebbe giocare con una posta così alta? Simile è la storia di Galliano da Dior, a cui venne semplicemente detto di fare quello che gli pareva perché bisognava far parlare la gente; ma anche la vicenda di come Lady Diana si strappò il corsetto del famoso abito blu indossato al Met Gala all'ultimo momento o di come Miuccia Prada propose di testa sua una collezione “brutta”. Unica nota consolatrice: ieri come oggi i dibattiti sugli sprechi, sul corpo delle modelle e sul supporto dei talenti emergenti sono rimasti identici. La moda è cambiata ma non la sua platea, sempre polemica, sempre cinica e sempre blasé.

@iam_just_so_ In the 90´s #vogue #90s #fashion #style #fyp #bruxelles #aesthetic #fashionstyle #disneyplus Vogue (Single Version) [2022 Remaster] - Madonna

E proprio nel “di testa sua” sta il punto: il mondo della moda dipinto dalla docu-serie è dominato dall’iniziativa personale, dall’azzardo e da un’immediata linearità che oggi, tra consigli di amministrazione, infinite serie di mediatori e social media non è più ottenibile. Era una moda che sapeva sorprendere e non si vergognava di scioccare, in cui i giornalisti potevano stroncare una collezione se gli pareva o dedicare dodici pagine di Vogue per promuovere un designer emergente se lo si riteneva talentuoso, in cui i designer si lamentavano davanti alle telecamere dei datori di lavoro, in cui le celebrity non avevano la mediazione degli stylist ma discutevano direttamente con gli stilisti chiamati al telefono, in cui si poteva incontrare al bar l’equivalente anni ’90 di Bella Hadid e chiederle di posare per un editoriale indie in nome della simpatia. Un periodo in cui i miracoli avvenivano. Certo, si trattava anche di un’industria della moda più piccola, in cui c’era praticamente solo un manipolo di giornalisti e pochi altri designer, in cui i manager stessi erano aperti al rischio e in generale l’agire di tutti i protagonisti era molto meno diluito, come lo è oggi, dagli infiniti passaggi burocratici, contrattuali, legali che oggi hanno anchilosato il business della moda cancellandone ogni freschezza. Ma forse è solo il filtro della nostalgia, dopo tutto, per citare Byron, «i bei tempi andati – tutti i tempi sono belli quando sono andati».