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Il lusso sta perdendo la battaglia contro il fast fashion

Il segmento “aspirazionale” è il nuovo territorio da conquistare

Il lusso sta perdendo la battaglia contro il fast fashion Il segmento “aspirazionale” è il nuovo territorio da conquistare

L’espressione “Follow the money” venne coniata nel 1976 per il leggendario docudrama Tutti gli uomini del presidente. Da allora è rimasta un po’ la regola d’oro di qualunque indagine degna di questo nome: i flussi di denaro, la crescita dei patrimoni, la riuscita degli investimenti possono essere monitorati attraverso i dati finanziari. E in tempi in cui la moda di lusso è, se non in crisi, almeno in forte difficoltà mentre la “moda di massa” (usiamo questo termine per distinguere il fast fashion - Zara, H&M e COS - dall’ultra fast fashion di Shein e Temu) va esplorando nuovi investimenti e acquisendo talenti presi direttamente dal repertorio di quest’ultima, conviene forse confrontare chi faccia più soldi e a che velocità. Entrambi i settori in effetti sono dominati da due mega-gruppi, Inditex da un lato e LVMH dall’altro, i cui risultati finanziari del primo trimestre dell’anno, possono offrire uno scorcio della situazione. I due mega-conglomerati hanno in effetti riportato risultati finanziari notevoli ma contrastanti per il primo trimestre del 2024 e confrontando i loro ricavi, la crescita e altre metriche finanziarie, possiamo comprendere meglio quale delle due aziende ha ottenuto risultati superiori durante lo stesso periodo.

Inditex e LVMH a confronto

Inditex, casa madre di Zara, Massimo Dutti e Bershka, ha registrato risultati finanziari molto positivi per quel periodo: le vendite totali hanno raggiunto 7,6 miliardi di euro, con un aumento del 13% rispetto all'anno precedente - crescita trainata dalla forte domanda in tutte le regioni e categorie, e in tutti i canali di vendita. L'utile netto di Inditex è aumentato significativamente, crescendo del 54% a 1,16 miliardi di euro. La capacità di Inditex di adattarsi alle tendenze dei consumatori e di integrare con successo l'innovazione digitale nel retail ha reso l’azienda una vera potenza. Dall’altro lato dello spettro c’è LVMH, il leader mondiale nel settore del lusso. Nello stesso periodo di tempo, il gruppo di Arnault ha registrato 20,7 miliardi di euro di ricavi, con una modesta crescita organica del 3% rispetto all'anno precedente ma (e questo è rilevante), rispetto allo stesso trimestre del 2023, i ricavi totali sono in realtà diminuiti del 2%, a causa di vendite lente nel settore Fashion & Leather Goods, che ha registrato un calo del 2%. Una performance più debole attribuibile in parte a situazioni economiche e geopolitiche più o meno contigenti ma che dimostra il rallentamento della crescita del mercato del lusso in Europa e Cina. Altrove, LVMH ha performato meglio. La divisione Profumi e Cosmetici ha registrato una crescita organica del 7% mentre Sephora, sotto la divisione Selective Retailing, è cresciuto dell'11%.

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Ma chi ha ottenuto risultati migliori? In termini di ricavi, LVMH resta significativamente più grande di Inditex, con oltre 20,7 miliardi di euro di ricavi rispetto ai 7,6 miliardi di euro di Inditex. Ma in termini di crescita, Inditex ha chiaramente superato LVMH nel primo trimestre del 2024: una robusta crescita delle vendite del 13%, contro il modesto 3% di LVMH. L'aumento netto degli utili di Inditex contrasta di molto con la performance più contenuta di LVMH. Insomma, sebbene LVMH continui a dominare il settore dei beni di lusso in termini di ricavi (considerando anche un portfolio assai più ampio) Inditex ha superato LVMH in termini di crescita e redditività nel primo trimestre del 2024. Si potrebbe dunque dire, forse semplificando, che LVMH è più grosso ma Inditex più in salute: i giganti della moda fast fashion sono pronti a occupare un segmento di mercato che il lusso ha volutamente lasciato indietro a furia di aumenti dei prezzi di listino, ovvero i clienti aspirazionali.

Questioni di ottica

Dato che si parla di clienti aspirazionali, e dunque di consumatori informati che non cercano un prodotto qualunque ma anche un certo senso di appartenenza culturale, di distinzione sociale e di qualità, il vuoto da riempire riguarda il percepito dei singoli brand. Ma se il lusso può solo muoversi verso clientele più alte e rarefatte, con ogni brand che prova a diventare il prossimo Hermès già a partire dalle borse; la moda di massa è invece libera di entrare nel segmento di quei clienti desiderosi di distinguersi ma dalle possibilità economiche più limitate. La maniera di colmare questa distanza è proprio modificare il percepito: inizialmente tramite l’impiego di talenti come fotografi e modelle di grido; in seguito collaborando con brand di moda sia grandi che indipendenti e, infine,  richiamando la partecipazione di famosi designer e talenti celebri associati al lusso. Stefano Pilati e Steven Meisel per Zara, ad esempio; o Clare Waight Keller che diventa la direttrice creativa di Uniqlo; Heron Preston che lavora con H&M con cui sia Rokh che Rabanne e Mugler presentano collaborazioni; JW Anderson e Undercover con Uniqlo, Victoria Beckham con Mango, Peter Do con Banana Republic, Haider Ackermann con Fila e anche, in maniera più controversa, Shein X con Monse. Con in più un elemento notevole: se già da decenni queste le collaborazioni tra brand di lusso e brand di massa esistono come one-off stagionali, nel caso di Preston prima e di Waight Keller (ma anche quello di Zac Posen da Gap e Old Navy) poi la collaborazione diventa più continuativa, una direzione creativa vera e propria. Per non parlare di come COS e Benetton abbiano iniziato a sfilare, dotandosi di direttori creativi e di modus operandi tipici dei brand di moda.

Se in passato queste collaborazioni (che hanno tutte un famoso e sfortunato precedente con la partnership di Halston e JC Penney del 1983, e sono state riavviate quando Karl Lagerfeld accettò di disegnare per H&M nel 2004, annunciata con uno spot geniale che ebbe per protagonista lo stesso Lagerfeld in cui tutti si domandavano «is it true?») rappresentavano dei momenti isolati attraverso cui brand istituzionali come Maison Margiela o Versace atterravano per un breve momento nel “mondo esterno” della grande distribuzione, nel tempo le cose sono cambiate. Non solo questi sodalizi sono diventati fissi e continuativi ma hanno anche finito per coinvolgere brand indie che si presentavano a un pubblico più vasto attraverso la moda di massa: è il caso di Studio Nicholson, brand relativamente di nicchia che si fece conoscere dal mondo intero dopo aver collaborato con Zara. Adesso però le ambizioni paiono cambiate: sia Zara con Pilati che Uniqlo con Waight Keller hanno dato il segnale che i grandi giganti del mass fashion non solo possiedono ormai fatturati simili (nel 2023 la divisione moda di LVMH ha registrato 42,2 miliardi di revenue, poco più in alto dei 36 miliardi circa di Inditex; e, per intenderci, la casa madre di Uniqlo, Fast Retailing, e Kering hanno avuto revenue quasi simili nello stesso anno) ma anche gusto e dignità necessari per ingaggiare designer e talenti afferenti al lusso. E a questo si aggiunge anche il mecenatismo: esiste in Spagna una Marta Ortega Peréz Foundation dedicata a mostre d’arte ed eventi culturali proprio come esistono a Parigi la Pinault Collection e la Fondation Louis Vuitton. 

Una gerarchia obsoleta?

Tutti questi diversi segnali paiono indicare che l’elevazione verso strati più alti del mercato, porterà giganti della moda di massa, Inditex in testa, a piantare la propria bandiera in quel middle market che i brand di moda (ma anche i brand premium) hanno ormai disertato in cerca di margini sempre più alti, ottenuti con ricarichi di prezzo che persino gli stessi clienti ricchi hanno iniziato a giudicare eccessivi. E per il resto dei consumatori il vecchio senso della gerarchia tra brand sta per perdersi. La tradizionale distinzione tra i consumatori di fast fashion e di lusso si sta riducendo, poiché molti ora passano senza problemi da una categoria all’altra in base ai loro bisogni, desideri e occasioni. Non ha poi aiutato che la filiera della moda sia stata colpita da diversi scandali che hanno rivelato che nella produzione di diversi beni di lusso più commerciale non c’è nulla di lussuoso o di esclusivo, che i brand lesinano sulla qualità da anni ricorrendo a ogni pensabile trucco per ricavare margini più alti e che lo stesso termine Made in Italy (per fortuna solo in alcuni casi) non significa molto quando gli sweatshop e le fabbriche clandestine si trovano in Brianza e non in Cina. Una sfiducia che è aumentata anche di fronte alla crescita ingiustificata dei prezzi di alcune categorie, che tanto ha superato il valore effettivo degli oggetti che diversi clienti del lusso, aspirazionali e non, sono semplicemente andati a cercare altri brand e produttori capaci di creare gli stessi prodotti senza immotivati ricarichi. 

Anche se non sappiamo cosa riserverà il futuro, pur restando certi che l’industria del lusso non dovrebbe affondare, è molto indicativo che un’iniziale schiera di talenti della moda stia migrando verso territori dell’industria dove la crisi e le pressioni produttive pesano meno e dove il denaro delle vendite scorre più fluidamente - dando anche in prestito ai grandi brand di massa il proprio prestigio. La questione dunque non riguarda quanto i brand di massa saranno in grado di elevarsi, ma come faranno i brand di lusso a scendere dalla fragile e pericolosa cima su cui sono saliti per mantenere i propri standard di crescita senza ridimensionarli drasticamente.