«Non stavo solo facendo abiti, stavo creando corpi» intervista a Sébastien Meunier
Su Martin Margiela, Ann Demeulemeester e soprattutto se stesso
24 Settembre 2024
Vincent Migliore
Vestire un corpo. È questo l’atto fondamentale che soggiace al funzionamento di un’industria che solo in Italia smuove in un anno più di 102 miliardi di euro: vestire un corpo. E dunque determinarne la percezione, creando attraverso un supporto materico un'intera narrativa, a volte un mondo, se siamo disposti a vederlo. È così che le donne hanno scoperto le minigonne, rivendicando la loro liberazione sessuale negli anni ‘60 ed è così e con la stessa funzione gli uomini hanno scoperto il medesimo capo, 30 anni più tardi. Ma tutto parte dal corpo, da quanto ne vogliamo celare o scoprire, dalla percezione che vogliamo suscitare nell’altro vestendolo in un modo piuttosto che in un altro. Per Sébastien Meunier è stato così dal principio e non era solo il corpo a dover essere al centro di tutto, era il suo di corpo, in una ricerca ossessiva che parte dagli anni dell’università, con la vittoria dei suoi ragazzini magri e punk al Festival di Hyères nel 2006. Dal ruolo di head of menswear da Martin Margiela alla direzione creativa di Ann Demeulemeester, la ricerca del designer francese ha assunto negli anni declinazioni diverse tra loro, a volte più sfumate e romantiche, incrociando le strade della moda belga e dei suoi maestri anonimi per oltre due decadi. Oggi, quell’ossessione giovanile ritorna - perché non si è mai estinta - con il suo brand omonimo e uno studio che riparte dall’Arte Povera, da una tuta da lavoro che si compone e scompone a piacimento, vestendosi di stampe che hanno segnato i momenti salienti della biografia di Meunier. «Il mio lavoro è molto più sensuale di quanto non lo fosse stato con Ann e Martin» racconta tra le mura turchesi della sua casa-studio, dietro di lui un’imponente croce in marmo, uno scatto di Marina Abramović e Ulay nell’atto di urlarsi a vicenda, una rella di t-shirt stampate. Su una si legge “Holy Shit”, sull’altra “A rose is a rose”, su un’altra ancora l’immagine di un satiro, scattata durante un viaggio a Pompei proprio insieme a Margiela («è allora che mi sono innamorato dell’Italia», confessa). La conversazione è stata copiosa, tentare di riassumerla è un peccato necessario, ma in quell’atmosfera cangiante, circondato dai cimeli di una vita e dalla capsule collection che ne segnerà un nuovo capitolo, Meunier si è mostrato designer, uomo, di nuovo ragazzino, sempre nel modo più “istintivo possibile”.
Hai parlato della volontà fortemente autobiografica dietro al tuo brand omonimo. Per anni hai prestato la tua visione a due maison che hanno fatto la storia della moda, sfumando forse la tua visione con quella di una casa già affermata. Come ti senti a creare un brand nella libertà assoluta?
Non mi sono mai sentito veramente in difficoltà nel lavorare per un altro brand e nell’integrarne i codici. Ma è più interessante per me, a 50 anni, rifare il mio marchio, perché posso ritrovare un modo di lavorare più personale, parlare delle mie esperienze, della mia sessualità, delle mie ossessioni. In passato l’ho fatto in maniera molto generosa, vera, senza limitarmi. Ho fatto performance, ho mostrato un uomo più androgino 25 anni fa, presentando un modo di pensare che non esisteva ancora nella moda. Oggi sono contento perché la mia idea dell'uomo o della donna sia arrivata nel sistema, ma in questi anni ho lavorato per altri marchi esprimendomi sul tema in maniera forse più concettuale. La mia invece, è una visione istintiva.
In un’intervista del 2021 per Vogue Greece, hai detto «voglio che le mie ragazze proteggano i miei ragazzi». È una frase che mi è rimasta impressa.
Ho sempre visto il potere protettivo delle donne e una maggiore fragilità negli uomini. Mi piaceva l'idea che fossero le ragazze a difendere i ragazzi che vestivo e non viceversa. Non posso dire che il mio brand andrà per certo in quella direzione, perché è in continuo divenire, so solo che questa volta non voglio ci siano differenze tra abbigliamento maschile e femminile. Ma ovviamente, quando metti un capo ad una donna piuttosto che ad un uomo, non ha lo stesso impatto, non dà la stessa sensazione. Alla fine ogni capo si adatta alla persona che lo indossa.
Mi sembra di cogliere, in questo progetto, un senso di “sessualità” maggiore rispetto al passato.
Il mio lavoro è molto più sessuale di quanto non lo fosse stato con Ann e Martin. Penso che Martin fosse consapevole della carica sensuale che ero capace di infondere in un abito ed era contento che io avessi iniziato a disegnare per lui, poiché voleva dare un po' più di sessualità al suo mondo. E penso che anche Ann abbia scoperto questo mio lato con il tempo. Quando lavoravo per lei, c'era sempre questa tensione che cercavo di introdurre in ogni capo. Alla fine, ho spinto ulteriormente questo aspetto, cercando di fare cose che non avrei fatto per me stesso, magari perché era troppo presto o non era il momento giusto.
Hai detto anche: «A Martin piaceva la mia consapevolezza del corpo.» Una consapevolezza che potrebbe essere collegata all'idea di performance, che è davvero importante per il brand in questo momento, dalla tua passione per il balletto che con Nijinsky ha ispirato estensivamente il tuo lavoro Ann Demeulemeester, alla tua collaborazione per la propoganda gay con l’artista Slava Magutin. Modi sempre diversi di intendere un corpo.
Tutto è iniziato con la mia prima collezione per il festival d’Hyères. Avevo questa ossessione per il corpo, quindi dovevo necessariamente ricreare uno mentre realizzavo un capi, in modo quasi concettuale. Non stavo solo facendo abiti, stavo creando corpi. C'erano questi ragazzini punk e magri, coperti di pelle rossa e nera, con i muscoli ben in vista, trasmettevano una tensione quasi pornografica. Il tutto si rifletteva anche nei gioielli: ho realizzato molti pezzi ispirati alle ossa. Ero ossessionato dal corpo, anche dal mio, in un certo senso. Probabilmente, perché ero giovane e stavo esplorando la mia sessualità. Oggi, attraverso i social media le persone esprimono facilmente la propria fisicità. All'epoca non era possibile, dovevo sublimare questa necessità attraverso i modelli. Ma volevo mostrarmi anch'io, e ricordo che una volta decisi di sfilare io stesso, vestendomi e svestendomi davanti al pubblico per mostrare l’intera collezione. Ma poi, discutendo con il team, ci rendemmo che ci sarebbero voluti più di 20 minuti, troppo per una sfilata. Alla fine, ridussi il tempo a dieci minuti, ingaggiando due modelli e mantenendo l’atto del vestirsi e svestirsi. Successivamente, iniziai a esplorare il concetto di performance nella moda, collaborando con coreografi e artisti e a fotografare e stampare parti del mio corpo sugli inviti e sui capi. Ho inizato a vedere la moda come una forma di arte performativa.
Hai parlato molte volte di ossessione in questa intervista. Credo che le menti creative più importanti del nostro secolo, o persino del mondo, siano così proprio a causa dell'ossessione, in un certo senso. Quindi, quali sono le tue ossessioni?
È vero, penso che una mente creativa, in generale, ripeta qualcosa e lo ripeta a modo suo, perché la vita del designer o di un artista dipende da questo, in un certo senso. C'è questo forte senso di urgenza, ed è proprio questo a renderla un’ossessione: perché è un pensiero che torna costantemente nella tua testa, è un’azione che non puoi non fare. Esprimendo questa urgenza a volte puoi connetterti con le altre persone e condividere qualcosa che non potresti esprimere in modo convenzionale. Forse questo è il mio linguaggio, il mio modo di parlare, in un certo senso. La moda è l'unica cosa che so davvero fare. Le mie preoccupazioni si traducono nei miei capi.
Stavo pensando alla performance "Homme Sandwich" del 2005, in cui i modelli rappresentavano diversi personaggi stilizzati, ciascuno con un sacchetto di carta in testa stampato con il tuo volto in diverse vesti. Tu stesso hai sfilato durante lo show vestito da Superman: sul tuo sacchetto c'era scritto "megalomane". Hai parlato dell'idea di esporre il tuo corpo come necessità creativa, un concetto che sembra cozzare con lo spirito dei brand con cui hai collaborato per oltre vent’anni, che sull’anonimato hanno fondato un’intera narrativa. Il dilemma è sempre stato esporsi o non esporsi per un designer, ma con l’avvento dei social media la questione sembra essersi complicata ulteriormente, è così?
È una domanda interessante, perché riguarda un tema che mi preoccupa molto. Ho lavorato con persone che preferiscono rimanere anonime, ma io volevo esprimermi prima di tutto attraverso i miei abiti, probabilmente perché non sapevo esprimermi diversamente. Dopo vent'anni di lavoro con questo tipo di designer, ho capito che mi piace anche lavorare nell'ombra, senza cercare l'esposizione come una star o un influencer. Voglio solo trovare me stesso attraverso i miei capi, come uno scrittore che parla di sé nei suoi libri. Mi sento molto a disagio con i social media, anche se li trovo affascinanti e pericolosi allo stesso tempo. Penso che dovrebbero essere un mezzo per esprimersi, ma non un obbligo per farsi conoscere. Quando ero giovane, non c'era questa possibilità, e a volte sono un po' geloso dei giovani di oggi che possono mettersi in mostra così facilmente. Ma forse se avessi avuto questa scorciatoia non avrei sentito il bisogno di esprimermi attraverso gli abiti. È importante avere delle difficoltà che ti costringono a pensare di più a ciò che fai e che ti rendono più forte in ciò che esprimi.
Limitarsi può creare nuove possibilità per la propria arte?
Ho sempre cercato di impormi delle restrizioni volontariamente e mi ispira molto l’Arte Povera in questo. Ho sempre lavorato realizzando le stampe senza usare il computer. Ancora oggi non lo uso molto, se non per via delle email. Sono molto vecchio stile in questo senso, lavoro ancora con fotocopie, ritagli, ricostruendo le immagini manualmente. Disegno solo quando è necessario, non perché mi piaccia particolarmente farlo. Lavoro con ciò che ho a disposizione, sentendomi spesso a disagio con le nuove tecnologie.
Le ultime domande che voglio farti sono un po’ nostalgiche invece. Il ricordo più caro che conservi di Ann Demeulemeester e della vostra collaborazione.
Quando l'ho incontrata per la prima volta, è stato a Maison Guiette, ad Anversa. Abbiamo parlato per ore, molto più a lungo del previsto. Siamo persino usciti a mangiare insieme—falafel in un kebab —e alla fine mi hanno accompagnato alla stazione. Ero ancora in treno quando Patrick Robyn, suo marito, mi chiamò e disse che volevano lavorare con me. Quello fu l'inizio di una collaborazione durata dieci anni. Mi ha fatto conoscere PJ Harvey e Patti Smith, e la casa di Le Corbusier, patrimonio mondiale dell'UNESCO, è presto diventata il mio studio. È stato l'inizio di un'esperienza incredibile, una collaborazione durata dieci anni.
E di Martin Margiela invece?
Martin. Il mio miglior ricordo più prezioso è stato lavorare con lui. Penso sia la persona più generosa che abbia mai incontrato nella mia carriera. Durante le riunioni, il team si riuniva intorno al tavolo e ciascuno di noi presentava le idee che aveva in serbo per la stagione. Lui condivideva naturalmente la sua visione, ma anche noi contribuivamo con ciò che avevamo scoperto durante le nostre ricerche, senza avere una direzione precisa da seguire. C’era una totale libertà nell’esprimersi, e all'improvviso tutto prendeva forma, con il contributo di tutti. Non ho mai avuto l'impressione che ci imponesse una direzione specifica; al contrario, ci incoraggiava a esprimere liberamente la nostra creatività e a essere pienamente consapevoli della nostra sensibilità. Con poche parole, riusciva sempre a indirizzarci nella giusta direzione, quella che desiderava certo, ma c'era una certa magia nel modo in cui lo faceva. Non ho mai avuto difficoltà nel lavorare con lui; era sempre generoso e privo di tensioni, cosa rara nel mondo della moda.