Il trend “demure” ha già rotto
Quando il marketing prosciuga l’autenticità
28 Agosto 2024
Viviamo in un mondo in cui tutto viene commercializzato e in cui l’unico parametro oggettivo del successo è il profitto. Il che tende a snaturare l’autenticità di qualunque fenomeno culturale, che già al suo nascere si ritrova sbranato dalle sempre più feroci legioni del marketing. È il caso di Jools Lebron, content creator che quest’estate ha detto la frase «very mindful, very demure» in un video su TikTok facendo diventare l’espressione virale praticamente ovunque – specialmente dopo l’ossessione collettiva per l’estetica aggressivamente casual che Brat di Charli CXC ha sdoganato a inizio estate. Ma se il video che ha fatto esplodere il meme sui social è già diventato un cult con oltre 43 milioni di views e un engagement rate del 53% (secondo AdAge cinquanta volte superiore alla media del 1,37%), è probabile che Lebron non mieterà tutti i frutti di questo successo. Pochi giorni fa è stato reso noto che un signore di Washington, Jefferson Bates, del tutto irrelato a Lebron, ha avuto la pensata di registrare legalmente il marchio «very mindful, very demure» prima ancora che lo facesse la sua creatrice che, nel frattempo, aveva iniziato a cavalcare l’onda del trend avviando partnership con compagnie grandi e piccole, da Netflix, Lyft e Verizon ma anche brand più piccoli come Patrick Ta Beauty finendo anche in televisione intervistata da Jimmy Kimmel. La notizia del pasticcio legale, comunicata dalla stessa Lebron, ha attirato ulteriore attenzione sulla content creator che nel giro di una giornata ha assunto un nuovo team legale per poi comunicare, poche ore fa, che la situazione è sotto controllo. Non di meno, se l’opportunità capitata a Lebron è enormemente positiva per la carriera e la vita personale della creator, l’intera catena di eventi che ha portato a una battaglia legale così presto ha già in parte risucchiato ogni autenticità da fenomeno che pareva aver intercettato i vibes del momento con una naturalezza straordinaria. Insomma, il marketing ha già rovinato il trend “demure”.
Qualcosa di simile era avvenuto qualche mese fa con la Hawk Tuah Girl, altra ragazza che dopo aver fatto una battuta durante una di quelle interviste rivolte ad anonimi membri del pubblico, si è ritrovata con un contratto da talent, apparizioni a concerti country, podcast e persino una partita dei New York Mets insieme a vendite di merchandise. Rolling Stone l’ha addirittura paragonata a una «Gen Z Dolly Parton» suscitando anche le rimostranze di una sezione del pubblico irritata da una celebrità così immotivata, su cui si è capitalizzato quasi con ferocia. Ma così come quello dell’Hawk Tuah Girl o del verde Brat, anche il trend “demure” rappresenta un esempio di come il marketing oggi si muova con una rapidità tale da trasformare in uno spot pubblicitario qualunque battuta, qualunque video virale, strappandolo al divertente reame della casualità per portarlo in quello decisamente forzato e “venduto” del marketing e del merch.
Hawk tuah. Brat. Demure. So much of meme culture rn is just like, here’s a word. We say it now
— Becca Lewis (@beccalew) August 17, 2024
È una logica un po’ mercantile che è sempre esistita, certo, ma che nell’economia dei social media, regolata da interazioni, commenti e EMV, fa diventare commerciale anche il meme più casuale in maniera del tutto gratuita. Nel caso di “demure”, ad esempio, l’espressione usata da Lebron non era il riflesso o la sintesi geniale di un fenomeno che avveniva nel mondo (pensiamo alla pregnanza della scritta “Tourist go home” apparsa sui muri di tutta Europa quest’estate) ma è emersa con la stessa casualità del Walmart Yodeling Kid nel 2018, che adesso è un cantante country, di Brittany Broski alias Kombucha Girl che ora è diventata una TikToker; o, in Italia, di Marco Morrone più noto per il video “Saluta Andonio” che dopo qualche anno di ospitate in tv e persino una canzone-meme è tornato a condurre una vita privata. Ma se fino a qualche anno fa il diventare un personaggio virale online conduceva al massimo in qualche talk show, a una comparsata in discoteca e poco altro, oggi sia le nuove meteore di Internet emergono già con la consapevolezza di poter monetizzare su questi momenti del tutto casuali, sia le aziende sono già pronte e desiderose di offrire loro partnership remunerative anche a pochi giorni di distanza dalla loro apparizione.
Il meccanismo insomma è ben oliato – ma l’effetto è che, come nel caso di “demure”, la saturazione del trend, l’apice della sua diffusione arrivi in pochi giorni finendo per far sentire una certa fatica nel pubblico, dovuta al fatto che l’estrema commercializzazione coincide anche in una perdita di umorismo e di autenticità dei funny little moments. Il che non è dovuto ai soli creators, ma anche ai marketer che incorporano una certa keyword nelle loro e-mail, nei loro pitch e infine in campagne cross-mediali di ogni genere, in maniera spesso forzata ed estemporanea oltre che fino alla nausea. Ma se in passato questo marketing tendeva ad arrivare verso il fine-vita di certi tormentoni, testimoniandone lo scadimento, oggi il “salto dello squalo” verso il mainstream (e non c'è niente di meno cool del mainstream) avviene ancora prima, dandoci anche l’illusione che un certo slogan casuale sia in grado di rappresentare un segno dei tempi. Oggi già si parla, in maniera irragionevole, del trend “demure fall” dando l’impressione che l’ossessione per il termine sia la conseguenza e non la causa di una certa tendenza nella cultura o che l’espressione sia qualcosa di diverso da una semplice buzzword propagatasi un po’ casualmente. Il che ci fa domandare: ogni barzelletta deve per forza diventare un brand o un marchio registrato? Può esistere humor senza sfruttamento capitalistico? Chiunque diventasse una star in una notte proverebbe a monetizzarci, ma forse la venalità personale non è il principale parametro con cui definire la cultura.