Quando Bernard Arnault provò a comprare Hermès
Come una delle famiglie più ricche d’Europa sbarrò la strada a LVMH
15 Agosto 2024
Oggi siamo abituati a un mondo del lusso anche troppo stabile, in cui i grandi brand appartengono a grandi gruppi in maniera più o meno definitiva e in cui anche le grandi acquisizioni, come quella parziale di Kering nei confronti di Valentino, si svolgono gradualmente. Non sempre è stato così però. Nel primo decennio degli anni 2000, quando le fortune dei grandi gruppi si andavano costruendo, era ancora pensabile che un grande gruppo acquisisse un brand storicamente indipendente come Hermès. Sicuramente era pensabile per Bernard Arnault che, nell’ottobre 2010, telefonò inaspettatamente a Bertrand Puech, patriarca della famiglia Hermès, e a Patrick Thomas, CEO del brand che in quel momento stava facendo un pedalata in campagna nella regione dell’Auvergne. A quei tempi Arnault era conosciuto per le sue acquisizioni aggressive, guadagnandosi il soprannome di "lupo vestito di cashmere", e nemmeno in quell’occasione si smentì. Arnault informò sia Puech che Thomas che LVMH aveva acquisito in segreto una quota azionaria del 14,2% di Hermès e che presto si sarebbe lanciato alla conquista del restante 73,4%. E anche se Arnault aveva presentato l’operazione come un’offerta di supporto strategico e operativo (dopo tutto aveva investito i suoi soldi nel brand) Puech e il resto della famiglia Hermès videro in tralice una minaccia al controllo che la famiglia deteneva sul brand che, ricordiamolo, è rimasto indipendente per tutta la durata della sua esistenza quasi bicentenaria. Era iniziata una battaglia che si sarebbe conclusa solo anni dopo.
Come racconta WWD, all’epoca, Patrick Thomas espresse tutta la rabbia del grande clan Hermès definendo la potenziale acquisizione come «rivoltante». Era una questione non solo di orgoglio familiare ma anche di filosofia aziendale: il metodo di lavoro di LVMH era ed è tutt’ora antitetico ai valori di artigianato ed esclusività che Hermès incarna. Gli eredi di Hermès, rappresentanti della quinta e sesta generazione della famiglia, decisero di fare fronte comune e respingere la campagna di conquista dell’uomo più ricco di Francia. In un tempo relativamente breve, LVMH aveva già accumulato circa il 17% delle azioni di Hermès attraverso una serie di manovre finanziarie complesse, inclusi swap di azioni e derivati, che avevano fatto sì che nessuno si fosse accorto effettivamente che le azioni venissero accumulate da una sola persona. Entro ottobre, la quota di LVMH era silenziosamente salita al 23%, pericolosamente vicina alla maggioranza. La telefonata di Arnault a Puech segnò il momento in cui la partita si giocò in campo aperto. È chiaro che se per Arnault questa acquisizione rappresentava la conquista di un asset importante (come giustificare altrimenti lo sforzo di mantenere le acquisizioni quasi segrete?), per la famiglia Hermès era in gioco la loro stessa identità: bisognava proteggere la loro eredità culturale e familiare che prevedeva la preservazione di un approccio unico al lusso e non orientato alla redditività e alle quote di mercato – approccio che aveva già allora fatto di Hermès un leader assoluto del settore.
All’indomani della telefonata di Arnault, la famiglia Hermès si mobilitò. Entro poche settimane dalla chiamata iniziale, circa 50 discendenti di Hermès si riunirono per elaborare una strategia: venne creata una holding che avrebbe consolidato le loro azioni e fornito un robusto meccanismo di difesa contro ulteriori tentativi di takeover. Questa holding, che alla fine controllava circa il 54,3% delle azioni di Hermès, includeva una clausola di diritto di prelazione la quale in sostanza diceva che qualsiasi membro della famiglia desideroso di vendere le proprie azioni dovesse prima offrirle alla holding e, in sostanza, domandare il permesso dell’intera famiglia. Inoltre, la famiglia contestò legalmente i metodi di acquisizione di LVMH presentando un reclamo all'Autorité des Marchés Financiers (AMF), l'autorità di regolamentazione del mercato azionario francese, accusando LVMH di non aver divulgato la sua acquisizione di azioni in conformità con le normative di mercato. Per Bloomberg, la mossa serviva come diversivo, per mettere il bastone tra le ruote a LVMH attraverso la legge e la burocrazia e dilazionare ulteriori acquisizioni. Nel 2011, il reclamo di Hermès portò a un'indagine da parte dell'AMF, che esaminò la liceità dei metodi di LVMH aprendo traversie legali che durarono anni interi, con LVMH che negava qualsiasi illecito ed Hermès che invece cercava prove di scorrettezza nel metodo di Arnault.
Mentre i due giganti si scontravano in tribunale, Hermès modificava l’assetto della società per rafforzare la sua governance interna e garantire al 100% la posizione di maggioranza della famiglia. Nel frattempo i toni si inasprivano. Come racconta WWD, quando nel marzo 2011 la quota di Arnault era salita al 20,2%, Thomas scioccò una folla di analisti e giornalisti paragonando il tentativo di acquisizione a uno stupro, durante la stessa occasione disse che la famiglia, che aveva a disposizione 829 milioni di euro in liquidità disponibile, non avrebbe esitato ad acquisire le quote di altri investitori per salvarle da LVMH. Thomas, che era anche il primo CEO dell’azienda a non appartenere a nessuno dei tre rami del clan (i Dumas, i Puech e i Guerrand) aggiunse anche: «Oggi la famiglia è estremamente unita. Il che non significa che siano d’accordo su tutto». La natura pubblica di questo dramma aziendale catturò l'attenzione del mondo degli affari, mettendo in evidenza il contrasto netto tra due diverse filosofie di gestione: da un lato l'approccio moderno e aggressivo all'espansione e al dominio del mercato e dall’altro la tradizione, l'artigianato e la crescita misurata.
Nel frattempo le traversie legali logoravano gli sfidanti. Come spiega The Fashion Law, nel corso del 2012 si svolse un'indagine formale da parte dell'AMF. Nel luglio di quell’anno, Hermès definì l'acquisizione da parte di LVMH come «la più grande frode nella storia della borsa francese» e presentò una denuncia penale contro LVMH, accusando il conglomerato di insider trading, collusione e manipolazione dei prezzi delle azioni. LVMH rispose con una controdenuncia, accusando Hermès di diffamazione, ricatto e concorrenza sleale. Un mese dopo la controdenuncia di LVMH, l'AMF, che stava conducendo un'indagine indipendente dalle cause legali tra Hermès e LVMH, annunciò di aver scoperto prove di irregolarità nell'acquisizione delle azioni Hermès da parte di LVMH e richiese al suo comitato sanzionatorio di decidere se imporre sanzioni pecuniarie. Nella primavera del 2013, l'AMF confermò l'esistenza di insider trading e manipolazione dei prezzi delle azioni nell'acquisizione delle azioni Hermès da parte di LVMH: emerse che il gruppo aveva in effetti acquistato azioni di Hermès in segreto mirando a ottenere un controlling stake nell’azienda, nonostante Bernard Arnault avesse dichiarato in pubblico, all'assemblea generale di LVMH tenutasi a Parigi nell'aprile 2013: «Ci siamo ritrovati a possedere azioni di questa azienda inaspettatamente. Non avevamo pianificato di essere azionisti di questa società. Abbiamo fatto un investimento finanziario e quell'investimento ha avuto un esito che non ci aspettavamo».
Durante la propria assemblea generale poco dopo, il CEO di Hermès, Patrick Thomas, contestò le affermazioni di Arnault, dicendo che o da LMVH erano così disorganizzati da acquisire aziende per sbaglio oppure dicevano il falso. A questo punto, sia LVMH che Hermès presentarono ulteriori cause legali. Hermès chiese l'annullamento degli equity swap utilizzati da LVMH per acquisire le proprie azioni, oltre alla cancellazione dei contratti finanziari, chiedendo che LVMH rimettesse le quote sul mercato, sostanzialmente invalidando l’acquisto originario delle azioni stesse. LVMH, invece, fece causa contro un dirigente non nominato di Hermès (secondo The Fashion Law era quasi certamente Thomas) in risposta alle accuse implicite o esplicite di malversazione, che in pratica sarebbero state calunnie. A luglio, però, l'AMF condannò il modo «inusuale» con cui LVMH aveva acquistato «equity swap con diverse banche per evitare i requisiti di divulgazione e utilizzando filiali estere non elencate come unità consolidate fino al bilancio annuale 2010». L'AMF ordinò a LVMH di pagare 10,4 milioni di dollari di danni e Thomas venne accolto dal consiglio di amministrazione di Hermès al suono di applausi ed esultanza. In coda al conflitto, LVMH dichiarò di voler ricorrere in appello, citando la mancanza di prove di violazione della legge e aumentando ulteriormente la sua partecipazione in Hermès, passando dal 22,6% al 23,1%. Ma ormai si era giunti a una svolta.
Dopo anni di battaglie e crescenti pressioni normative, LVMH annunciò, nel settembre 2013, che avrebbe distribuito la sua partecipazione del 23% in Hermès ai suoi azionisti e investitori entro il dicembre 2014, promettendo nero su bianco a non acquistare ulteriori azioni di Hermès per i successivi cinque anni. Sempre nel 2014, Thomas annunciò il suo congedo dalla presidenza del brand, passando il testimone ad Axel Dumas, membro della sesta generazione della famiglia, che divenne il nuovo CEO e definì un giorno la vicenda come «la battaglia della mia generazione». In seguito alla battaglia, la famiglia Hermès prese ulteriori provvedimenti evitare ogni futuro tiro mancino. La proprietà familiare venne ristabilita al 67% entro la fine del 2022 eliminando in tronco ogni possibilità di altre acquisizioni ostili. Ma la battaglia con LVMH lasciò un segno indelebile su Hermès dato che rafforzò l'importanza dell'unità familiare e del loro impegno verso i valori fondamentali del marchio, spingendo i membri del vasto clan (a oggi, più di un centinaio di membri) a pensare in modo più strategico unificando anche i loro uffici familiari e veicoli d'investimento in un'unica entità, Krefeld Invest.