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Quanti direttori creativi servono per aggiustare un brand rotto?

Uno spettro si aggira per l’industria e si chiama “rapido turnover”

Quanti direttori creativi servono per aggiustare un brand rotto? Uno spettro si aggira per l’industria e si chiama “rapido turnover”

Di solito, nella moda, luglio è un momento morto. Concluse le sfilate, lanciate le capsule collection di stagione e celebrati gli eventi mondani, si fanno i calcoli per settembre e ci si prepara a un periodo più o meno placido in cui, semplicemente, non accade nulla di che. Tranne quest’anno. L’estate del 2024 non solo sembra stare accelerando con le news, le novità e i colpi di scena ma, prima della pausa di agosto, in cui gli stessi designer vanno in ferie, sembra non esserci fine a licenziamenti, annunci, acquisizioni, progetti. Durante l’ultima settimana i rumor si sono rincorsi febbrilmente: John Galliano che dovrebbe lasciare Margiela, Sarah Burton che dovrebbe andare da Givenchy, Kim Jones che per alcuni sarebbe in procinto di lasciare Dior, Thibo Denis che potrebbe andare a disegnare le scarpe di Louis Vuitton, Hedi Slimane che potrebbe andar via da Celine – per non parlare delle selvagge speculazioni sul futuro di Chanel. Il furoreggiare di ipotesi e teorie, che diventano via via più improbabili e fantasiose, ricorda molto da vicino l’assurda quantità di speculazioni che circondavano il futuro post-Gucci di Alessandro Michele, che secondo i gossip era pronto a entrare in almeno dieci brand diversi e la cui nomina infine disattese ogni diceria. E se ci sono almeno cinque brand privi di direttori creativi, quasi il doppio di designer al momento disponibili – la mania del “fanta-moda” evidenzia non solo come il rapido turnover di designer sia diventato quasi un intrattenimento fine a se stesso, ma anche che il rimpasto creativo rappresenti un antidoto spesso inefficace con cui risollevare le sorti di un brand in un mercato ormai apertamente inospitale e inclemente. Più che darci informazioni, il calciomercato degli stilisti tradisce anche un certo desiderio di rinnovamento da parte del pubblico nei confronti di un’industria ormai stagnante.

Nel mezzo di questo vortice di voci e controvoci, emerge anche tutta la complessità di reinventare un brand in un mercato ormai saturo, in cui tutti i posti sono stati occupati e tutti gli stili imitati, mettendo in dubbio quante volte sia possibile cambiare direzioni creative prima di distruggere la fiducia del pubblico e dei mercati. Ad esempio, Peter Hawkings ha lasciato Tom Ford dopo solo due collezioni e meno di dodici mesi al timone, pur avendo lavorato a fianco del designer Tom Ford per quasi trent’anni. La causa dell’addio? Per WWD e le sue fonti, si trattava di una mancanza di chimica con il team di design; per Luca Solca una performance deludente; per altri ancora di pressioni interne verso una più rapida espansione. Sia come sia, ci si trova ora davanti al dilemma dell’identità del brand: se il successore designato era troppo simile al suo predecessore, sarebbe risultato anche troppo diverso se avesse variato? E il successore del successore (per cui si ipotizzano già nomi eccellenti e poco credibili) dovrà reinventare il brand o tenerlo sulla stessa strada? E se lo variasse sarebbe ancora Tom Ford? E se no? Cos’è che si pretende esattamente dal brand Tom Ford al di là delle vendite? Il problema, banalmente, è che le vendite sono l’unica cosa che si pretende: un approccio “basta che funzioni” che prescinde dall’idea di identità o autorialità su cui il concetto di brand si fonda e fa scivolare in secondo piano il valore della coesione estetica. Secondo Lauren Sherman di Puck, comunque, un successore di Hawkings è già stato scelto, così come il prossimo designer di Blumarine è stato scelto (e questa non è una speculazione, si attende il responso a giorni) ma semplicemente la notizia non è stata ufficializzata.

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La sensazione generale, comunque, è che gli executive percepiscano i direttori creativi come cavalli da corsa da sostituire quando iniziano a perdere, scegliendoli magari per imitare il successo di una combinazione molto valida – basti pensare a quanti fondatori di brand streetwear siano stati messi a capo di brand storici da dirigenti che volevano replicare il successo di Virgil Abloh da Louis Vuitton. Esperimenti che, purtroppo, non sono sempre riusciti, per il semplice fatto che le loro stesse premesse risultavano, in sostanza, infondate. Givenchy ancora ne paga lo scotto. Dopo il doppio boom di Bottega Veneta sotto Daniel Lee prima e Matthieu Blazy dopo, una serie enorme di ex-discepoli di Phoebe Philo sono stati promossi nel tentativo di riprodurne l’effetto, da Ferragamo ad esempio, dove però le cose non sono decollate. C'è poi stato il trend dei «numeri due», ovvero creativi promossi internamente e salutati come la generazione di tecnici, di designer addestrati, capaci di eliminare la banalità dello streetwear e del basic logato e restituirci finalmente il prodotto, la qualità e via dicendo. Un approccio che però ha fatto passare la moda dalla padella alla brace dato che la corsa al minimalismo senza tempo si è rapidamente appiattita in una commercialità ancora più accentuata. E per di più in una fase in cui i prezzi sono aumentati, la cultura dei dupe e quella del secondhand hanno ridefinito la maniera di consumare la moda. Davanti a ogni nuovo designer ci sono spesso compiti e richieste impossibili: rivitalizzare per magia le vendite e farlo nel giro di pochi mesi, offrire una nuova visione che non contrasti con la vecchia ed essere in grado di replicare il trucco ogni sei mesi – se non ogni tre. 

Una dinamica resa ancora più tossica dalla trasformazione delle diverse speculazioni su chi si recherà dove in una sorta di branca separata della cultura del gossip. Come fa giustamente notare Vanessa Friedman sulle pagine del New York Times, questo meccanismo è dannoso per tutti, brand in primis: le voci di un potenziale addio gettano un’ombra tanto sul rapporto tra direttore creativo e management, quanto sui team di designer che si ritrovano nell’incertezza, fino ai clienti finali che iniziano a dubitare del brand stesso. Quanti VIC vogliono acquistare nella boutique di un brand che si sa essere in crisi? O il cui direttore creativo sta andando via per un calo delle vendite o cattive recensioni? La potenzialità di un’imminente addio del designer distrugge la fiducia dei clienti verso il brand i quali sanno che in pochi mesi lo stile dell’intera collezione potrebbe stare per cambiare. Ogni nuova direzione creativa, per certi versi, invalida o nega la precedente, relegandola al passato, così come ogni pettegolezzo getta ombre su tutto il lavoro svolto dal designer, facendolo percepire come il frutto di una direzione creativa sfortunata. Ma anche se il direttore creativo è il pubblico parafulmine del malcontento che circonda un certo brand, la sua responsabilità è condivisa da un esercito di CEO, design director, capi del merchandise e del marketing, per non parlare di investitori e fluttuazioni di mercato. Insomma, un designer è importante ma non è una panacea a tutti i mali di un brand. Anzi, la sensazione è che il rapido turnover riguardi proprio brand che a un direttore creativo potrebbero anche rinunciare essendo le ambizioni degli amministratori puramente commerciali. L’intercambiabilità dei designer, dopo tutto, dimostra soltanto l’intercambiabilità dei brand.