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Dove sono finiti i set delle campagne di moda?

La nuova moda vuole solo tristi sfondi bianchi

Dove sono finiti i set delle campagne di moda? La nuova moda vuole solo tristi sfondi bianchi

Risparmiare è sempre una buona idea, ma risparmiare dove non si vede è un’idea ancora migliore. E sembra che sia con in mente il risparmio che diverse campagne di moda degli ultimi anni hanno rinunciato ad ambientazioni, storie e generale creatività per accontentarsi di avere modelli e modelle seduti su uno sfondo neutro. Un po’ come quei ritratti di Linkedin in cui bisogna guardare la camera, stare a braccia conserte e sorridere. Se un decennio fa il blanding (in italiano potremmo definirlo “omogeneizzazione stilistica”) ha colpito i loghi dei brand, che hanno rapidamente perso i propri font, accenti, e le parti troppo complesse per essere digerite dal pubblico di massa; adesso è toccato alle campagne: modelle e modelli in posa su sfondi monocromi, loghi in bella vista e letteralmente nulla che possa distogliere l’attenzione del prodotto. Abbiamo ovviamente eccezioni qui e lì: le ultime campagne di Dior, Bottega Veneta, Louis Vuitton, quella bellissima di Moschino, per certi versi anche quella di Kenzo. Ma per la maggior parte dei casi il pubblico si è dovuto accontentare di sfondi vuoti, di location asettiche e indefinite che paiono uffici e, nei casi più estremi, di interni o esterni poco impegnativi come piscine, anonimi muri di cemento o mattoni, stanze borghesi di cui si vede poco o nulla, prati. Tutti accorgimenti che ricordano quelli che gli studenti di moda privi di budget adottano per i propri progetti e che i brand, così pieni di soldi, non dovrebbero adottare. Dov’è finita l’art direction?

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L’argomento è tornato a galla sia grazie a StyleZeitgeist che a un substack anonimo di nome White trash: the death of art direction che estende il problema non soltanto alle campagne ma anche agli editoriali dei magazine, dove il fondale vuoto è diventato l’equivalente al cinema dell’onnipresente green screen, capace di gettare su ogni cosa una sgradevole patina di artificialità. «Quand'è che l'approccio “less is more” alla creazione di immagini di lusso diventa indistinguibile da quello delle più comuni attività di e-commerce?», si domanda l’incendiario articolo di Substack. E in effetti anche noi ce lo siamo spesso domandato di recente, specialmente considerato come la dilagante mania dell’archivio abbia portato in molti, e non solo gli specialisti, a riesumare dal passato i vecchi cataloghi di J.Crew e J.C. Penney che senza borse di lusso, abiti dai prezzi folli e modelle-superstar riuscivano a svolgere il lavoro principale di solito assegnato alle campagne: creare un mondo immaginario e trasportare il pubblico in esso. Secondo Eugene Rabkin, il processo era già in atto ma è deflagrato con l’insensata polemica della campagna di Balenciaga che ha terrorizzato così tanto i dirigenti di qualunque brand che «i marchi sono ora in piena e costante modalità di gestione della crisi potenziale, che si traduce in autocensura». Il risultato è la progressiva rimozione di ciò che, citando il critico Roman Meinhold, il giornalista definisce «meta-goods» ovvero quei simboli accessori che corredavano la narrativa di un certo brand: pensiamo alle auto d’epoca, alle motociclette e agli scenari americani delle vecchie campagne Ralph Lauren, alle situazioni un po’ sconce dipinte nelle campagne del Gucci di Tom Ford, ma anche alla vivace art direction delle iper-dinamiche campagne di Dior ai tempi di Galliano.

In verità ci sarebbe un appunto da fare: e cioè che anche negli anni ’90 la presenza di campagne con sfondi neutri era diffusa, molte campagne di Versace e Chanel erano così per esempio; mentre diverse campagne d’epoca di Armani utilizzavano pure degli sfondi urbani un po’ indefiniti. Ma sia quelle campagne non erano il default della fotografia di moda, e sia quella era anche un’epoca in cui (duole dirlo) i vestiti bastavano a differenziare i brand – il mood era così riconoscibile che, anche in presenza di sfondi neutri, le pose delle modelle, l’intimità o distanza degli scatti bastavano. C’erano anche molte meno campagne con cui competere, tra l’altro, e dunque un brand come Jil Sander poteva permettersi di pubblicare una campagna in cui soltanto il viso di Amber Valletta emergeva da una quinta di tessuto damascato rosa – nemmeno un abito in vista. Lo stesso si dica per le severe campagne di Helmut Lang, che comunque possedevano un proprio grado di fredda bizzarria, e anche quelle di Calvin Klein. Campagne in studio che comunque convivevano con campagne “ambientate” che in effetti calavano gli abiti in contesti realisitici e che soprattutto, anche nel vuoto del set fotografico, impiegavano oggetti di scena, usavano pose, movimenti, adottavano mood diversi e, in breve, erano dotate di un’atmosfera. Le campagne più riuscite, specialmente quelle di Prada e Miu Miu, creavano anche un senso di mistero come quelle che citavano Psycho o The Shining, ma anche quella spettacolare per la stagione SS97 in cui sempre Amber Valletta era ritratta sdraiata sulla prua di una barca, intorno a lei le acque di un lago e, sulle rive, una foresta avvolta da fuochi e nebbie.

Più che presentare vestiti (o meglio, oltre a presentare vestiti) quelle campagne nascevano con l’obiettivo di creare immagini forti, anche minimalistiche, ma forti. Persino le foto di gruppo e i close-up veristici che adottava un brand come Comme des Garçons comunicavano una storia. E non che quelle campagne fossero eccessivamente più elaborate del solito, in tutte le epoche si cerca di fare il molto con il poco e risparmiare, ma si nota l’attenzione verso un gesto, un’espressione, una relazione tra i soggetti umani della foto che creava una narrativa. Oggi molti dei soggetti delle campagne, e specialmente le celebrità, appaiono schierati o isolati nella fotografia, immortalati in pose che oscillano tra il rigido e il caricaturale, ma tutte quelle pose che anche il The Guardian definisce «awkward» non riescono a nascondere la completa assenza di impegno nel concepimento e allestimento del photoshoot, tradita dalla completa nudità dei set. Per Rabkin il problema è che «oggi la creatività non è considerata potenzialmente remunerativa», una considerazione vera in un’epoca che pare più appassionata alla capacità predittiva degli algoritmi, alla sintetizzazione di quel quid che restituisca una formula sempre esatta. Il punto è che nella moda non servono formule esatte, serve buon senso, ma per vendere tutto il resto serve personalità – dopo tutto, non è la personalità il bene simbolico che si compra davvero quando si sceglie un abito e lo si compra?