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Quando la moda si dedica ad altro

Turbocapitalismo, ristorazione, espansione

Quando la moda si dedica ad altro Turbocapitalismo, ristorazione, espansione

La moda non si è mai occupata soltanto di vestiti, ma fino agli anni ’60 i brand si avventuravano più o meno timidamente in categorie esterne all’abbigliamento di lusso e alle sue più immediate adiacenze: saltuariamente, dagli anni '70 in avanti, i brand si misero a firmare automobili logate; già a fine anni ’80 c’era stata l’espansione nell’arredamento per Fendi, a cui seguirono le linee “Casa” di Versace nel ’92, quella di Armani nel 2000 e quella di Missoni nel 2004 per citare qualche esempio. Ma oggi i brand si sono espansi in ogni categoria pensabile: l’home fitness, ad esempio; i condomini di lusso, le spa, i ristoranti, i musei, l’igiene personale, giochi come le bocce o il backgammon, i treni, le stoviglie, gli accessori tech, la cancelleria. Di recente, Celine ha creato un reformer da pilates e tavole da surf, Louis Vuitton firma tavolini da ping pong, Balenciaga vende anche un sapone brandizzato tra le sue offerte di lifestyle, Gucci propone carta da parati e dadi da gioco, Hermès lampade, sgabelli ma anche slittini e set di pic-nic. La cosa non è nuova: tutti questi prodotti sono nati circa quarant’anni fa nell’era delle licenze selvagge mentre per brand come Prada, Gucci, Louis Vuitton o Hermès sono nati producendo oggettistica legata al viaggio o a sport come l’equitazione arrivando solo in seguito alla moda. Non di meno è indicativo che, ora che questi brand operano nel contesto di grandi gruppi industriali, le sovrastrutture che li governano abbiano iniziato a muoversi in altri campi d’investimento. L’entità di questi investimenti è notevole e via via che il tempo passa solo una porzione di essi riguarda il tessile in senso stretto, mentre capitali molto più ingenti vengono riversati in altro: principalmente in ospitalità, immobiliare e ristorazione di lusso, lasciando l’impressione che la moda sia rimasta un core business, ma contornato di così tante altre ramificazioni da passare quasi in secondo piano. E ora il meccanismo sembra stare accelerando.

@leoniehanne Room tour of the 25.000€ Grand Suite of the Orient Express - would you like to go? #orientexpress original sound - Leonie Hanne

Le notizie di acquisizioni e investimenti giunte nell’ultimo anno da parte dei principali mega-gruppi del settore riguardano la moda solo collateralmente. Il caso più eclatante è quello di François Pinault, proprietario di Kering, che un anno fa ha sborsato sette miliardi di dollari per acquisire l’agenzia di Hollywood CAA in una mossa che, per l’entità della spesa, avrà portato non pochi squilibri nel bilancio generale di famiglia. Restando sul piano dello spettacolo, LVMH ha aperto una venture dedicata al cinema e alla televisione con 22 Montaigne Entertainement mentre, a casa Kering, Saint Laurent ha lanciato uno studio di produzione. Sempre Kering ha di recente speso oltre un miliardo per l’acquisizione di un palazzo in Monte Napoleone a Milano nel mezzo di una corsa all’immobile a cui hanno partecipato un po’ tutti i big player dell’industria: Prada ha comprato un edificio sulla 5th Avenue, Dolce&Gabbana sono i nuovi proprietari dell’Excelsior a Portofino e apriranno un resort a Marbella mentre LVMH nel giro di qualche mese ha comprato almeno quattro edifici a Parigi, due dei quali sugli Champs-Elysées. Tutte acquisizioni per lo più mirate a espandere il business dell’ospitalità e della ristorazione (come nel caso di Dior che ha sei ristoranti tra Parigi, Saint Tropez e le principali metropoli asiatiche oltre che diversi centri benessere) ma che adesso assumono proporzioni più vaste con una partership con il gigante ferroviario Alcor per il rilancio del marchio Orient-Express e la sua integrazione in un programma di esperienze che uniscono il trasporto al soggiorno di lusso senza soluzione di continuità. Una fame di diversificazione che di recente si è allargata anche ad attività più piccole con LVMH che ha acquisito lo storico bistrot Chez L’Ami Louis a Parigi – non il mega-colpo strategico che molti si sarebbero attesi, ma un investimento simile a quello che il Gruppo Prada fece tempo fa con Marchesi a Milano.



Anche del format di questi investimenti non c’è da stupirsi: la prima “avventura” nell’hotellerie la fece Versace nel 2000 con Palazzo Versace Queensland in Australia, il primo di una serie di alberghi la cui ultima apertura è stata quest’anno a Macao; un altro dei modelli di riferimento lo ha fornito Giorgio Armani che da 14 anni investe in alberghi in Medio Oriente e in residence di lusso a Miami e Dubai, dove ad esempio il brand occupa cinque piani del Burj Khalifa, includendo nel brand librerie, pasticcerie e persino fioristi. In effetti non solo, come scrive Fortune Business Insights , «la dimensione del mercato globale degli hotel di lusso è stata valutata a 140,28 miliardi di dollari nel 2023 e si prevede una crescita da 154,32 miliardi di dollari nel 2024 a 369,36 miliardi di dollari entro il 2032». Insomma, sono buoni affari – ma sapendo che i veri soldi di numerosi brand e gruppi industriali spesso riguardano poco l’abbigliamento in sé e per sé (non è un mistero che borse, profumi e beauty rappresentino la principale entrata di brand che in realtà vendono pochissimo ready-to-wear) viene da pensare che esista una sostanziale sfiducia nei confronti della moda e si vada in cerca di altri e più alti margini in industrie come la produzione cinematografica e televisiva, l’immobiliare, il turismo e l’ospitalità, i trasporti ferroviari, la ristorazione. 



È una tempesta perfetta: essendo il report trimestrale il nuovo parametro di successo, i grandi gruppi minimizzano i rischi risparmiando sulla produzione e sull’originalità del design; la saturazione del mercato e i prezzi al rialzo, oltre che l’omogeneizzazione dei prodotti tutti simili a se stessi, allontanano i consumatori facendo sì che l’abbigliamento diventi un business sempre meno redditizio e spingendo i suddetti gruppi all’inseguimento di margini più alti  in industrie che riguardano sì il lusso – soltanto non l’abbigliamento di lusso. Un primo segnale di questo processo viene dalla silenziosa campagna di conquista che il lusso muove a gioielleria e orologeria, con la famiglia Arnault che acquista azioni Richemont e vende quelle di Birkenstock per 756 milioni di dollari, acquisisce il marchio di orologi L’Epee 1839 insieme a tutta l’azienda madre Swiza ed entra, insieme a Chanel ed Hermès, nel board di Watches & Wonders. Quella per il predominio nell’orologeria svizzera sarà una lotta leggendaria – ma LVMH è abbastanza grande per essere sia partner delle Olimpiadi di Parigi, vestendo gli atleti e facendo scorrere fiumi di champagne e cognac; che per diventare anche un landlord extralusso. Non dovremmo stupirci, un giorno, se giungerà notizia dell’acquisizione di compagnie aeree e stazioni televisive, ma anche di sviluppo edilizio o, se davvero le voci della prossima acquisizione di De Beers sono vere, di incursioni nel campo minerario. Se la moda non vende, in fondo, basta allargarne la definizione: tutto è moda con il giusto logo sopra.