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Dal 2030 tutti i vestiti in Europa saranno tracciabili

Abbiamo chiesto agli esperti a cosa serve il DPP e perché dovrebbe importarcene

Dal 2030 tutti i vestiti in Europa saranno tracciabili Abbiamo chiesto agli esperti a cosa serve il DPP e perché dovrebbe importarcene

Quando abbiamo iniziato a fare caso al paese d’origine della frutta e della verdura che consumiamo? La definizione "kilometro zero", nel mondo della cucina, oggi è riconosciuta generalmente come garanzia di qualità ed è presente nei menu di diversi risotranti. L’attenzione per ciò che consumiamo influisce sempre di più sulle nostre decisioni alimentari, un po’ grazie all’avanzamento tecnologico che ci ha reso più consapevoli, un po’ per colpa dell’ossessione che il mondo occidentale ha per la salute. Mentre abbiamo imparato a riconoscere il valore dei prodotti alimentari, verso i vestiti abbiamo coltivato un pericoloso disinteresse. Il mercato del fast fashion quest’anno sta registrando una crescita media del 3%, e si prevede che sfiorerà un valore complessivo di 47,5 miliardi di dollari entro la fine del 2024. Shein si è quotato in borsa a Londra e Inditex negli ultimi mesi ha osservato un aumento del 30% delle proprie azioni. Per promuovere la moda sostenibile, l’Europa ha imposto maggiori restrizioni ai produttori di abbigliamento al fine di esortarli al riciclo. Entro il 2028, ogni azienda sarà obbligata a raccogliere una percentuale sempre maggiore di rifiuti tessili o di pagare una tassa per la loro raccolta, mentre entro il 2030, ogni articolo in vendita nell’Unione Europea dovrà essere dotato di un Digital Product Passport (DPP). Alcuni brand hanno colto la palla al balzo, avendo già avviato l’iniziativa, ma molti altri vi voltano ancora le spalle. A cosa serve un passaporto digitale? L’abbiamo chiesto a Jenny Wärn, Product Operation Director presso TrusTrace, che si occupa esattamente di questo, e a Stefano Rosso, CEO di Marni, Presidente di Maison Margiela e Membro del board di Aura Blockchain Consortium 

Nata nel 2016, TrusTrace è un’azienda globale esperta nella creazione di programmi di tracciabilità per i brand di moda. È una piattaforma che gestisce tutti i dati relativi al prodotto di una marca, dalla provenienza dei materiali alla fabbrica in cui ha avuto luogo la produzione ultima. «La Commissione Europea sta obbligando i brand a divulgare queste informazioni ai consumatori», spiega Wärn. «Devono cominciare a interessarsene perché è una legge, ma non devono vederla come una sfida o un peso, ma un’opportunità». Con l’apertura di un’economia circolare nella moda, spiega l’esperta, sarà possibile stabilire una connessione più profonda con la clientbase, che si sentirà coinvolta in ogni passo della produzione dell’articolo che stanno comprando, ma sarà anche possibile per i brand accedere a informazioni cruciali su come i clienti interagiscono con ciò che comprano, su come, quanto e dove utilizzano ciò che acquistano. «Puoi accedere al mercato del pre-loved, se ricicli puoi rifare o riparare anche i prodotti più costosi», spiega Wärn, aggiungendo che oltre a proteggere l’ambiente e giovare alla relazione con i clienti, la moda circolare ha già dimostrato essere redditizia. «Con un pilot project realizzato insieme a Filippa K in Svezia, abbiamo testato completa tracciabilità su duecento prodotti e abbiamo comprovato che attraverso la riparazione e la rivendita potevano ancora trarre profitto da ogni articolo già in circolazione». 

Mentre il nuovo regolamento stabilito dall'UE definirà quali informazioni dovranno essere incluse nel passaporto digitale di un articolo, la comunicazione del DPP resta in mano a ciascun brand. Chloé ha lanciato la tecnologia rintracciabile Chloé Vertical nel febbraio 2023, un QR code o un tag NFC incorporato nell’indumento, in collaborazione con Vestiaire Collective. Dal codice è possibile scoprire la provenienza dei materiali che compongono l’articolo, capire come conservarlo o ripararlo al meglio, ma anche ottenere il certificato originale di autenticità in caso di necessità, come per la rivendita sul mercato di seconda mano. Su stessa iniziativa, questo giugno il gruppo italiano OTB ha annunciato che, a partire dalle collezioni FW24, tutti i prodotti Jil Sander, Maison Margiela e Marni saranno dotati di un certificato di autenticità digitale, un chip NFC collegato alla blockchain di Aura accessibile tramite smartphone. «Per la prima volta, ogni capo o accessorio sarà corredato da uno strumento in grado di provarne l’autenticità in modo incontrovertibile nel tempo e offrire al consumatore un livello di garanzia mai visto prima», commenta Stefano Rosso. «Con il tempo potremo aggiungere nuovi strumenti e possibilità di interazione come, ad esempio, il Digital Product Passport e collegamenti con altri asset digitali o token». Per il gruppo OTB, l'adozione del certificato di autenticità rappresenta un'occasione imperdibile non solo per garantire ai clienti maggiore trasparenza, ma anche per elevare l'esperienza d'acquisto attraverso l'innovazione tecnologica. Come spiega Rosso, l'iniziativa è in fase di sviluppo, ma un giorno verrà estesa ad altri brand del gruppo e includerà anche il DDP, come da regolamento europeo. «È un processo complesso che stiamo studiando con attenzione per individuare le migliori modalità di sviluppo e che dovrà coinvolgere la filiera», aggiunge il CEO. «Questo ci permetterà di cogliere prontamente tutte le sfide e le opportunità che le normative future ci porranno davanti». 

Per i consumatori, ottenere un certificato di autenticità e scoprire la provenienza dei materiali che indossano non è solo fonte di orgoglio, uno status symbol da aggiungere ai loghi che portano sul cappello. Interessarsi al processo di creazione dietro il tuo nuovo acquisto rappresenta un nuovo modo per dimostrare la propria posizione nei confronti delle cause socio-politiche. Attraverso il DPP è possibile «comparare il viaggio geografico di un prodotto con il rischio di lavoro forzato o di deforestazione in quell'area, l'impatto ambientale come l’utilizzo di acqua», spiega Wärn. «Oggi abbiamo tutto ciò che serve per capire il vero costo del fast fashion, dalla situazione dei lavoratori in Asia all’impatto che ha sull’ambiente». Ovviamente, finché le aziende non cambieranno la maniera in cui operano, i problemi socio-ambientali che stanno colpendo la fashion industry continueranno a persistere, ma sapere che i consumatori da adesso avranno migliori strumenti per valutare su quali brand investire infonde un rinnovato senso di speranza in tutti i professionisti che, come Wärn, si stanno impegnando per la causa. In più, le nuove restrizioni sulla trasparenza della UE non coinvolgono solo l’industria del lusso, ma tutto il settore, fast fashion inclusa. Quando la moda circolare scorrerà a pieno ritmo, spetterà a loro capire se lanciarsi a braccia aperte incontro al progresso o se rimanere bloccati nello stesso vecchio ciclo.