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E se si chiamasse Milan Fashion Weekend?

Le criticità di una settimana altrimenti trionfale

E se si chiamasse Milan Fashion Weekend? Le criticità di una settimana altrimenti trionfale

La Milan Fashion Week è un po’ il giubileo dei media di moda: per metà marcia forzata, per metà spettacolo di meraviglie, gli insider della città ne discutono per giorni e giorni, girando tra show, presentazioni, re-see ed eventi. È un momento particolare per chi lavora nella moda e per la comunità allargata nell’industria – ma anche un momento in cui un entusiasmo sempre rinnovato si scontra con gli inevitabili limiti e contraddizioni del sistema moda italiano. La battuta più ricorrente tra gli insider che s’incontrano in giro per la città, in effetti, è quella che parla di “weekend” piuttosto che di “week” riferendosi sia alla stringatezza di una programmazione esaurita in quattro giorni appena, sia il costante posizionamento di questi giorni nel mezzo del weekend che costringe i partecipanti a fare praticamente una settimana lunga.

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Quando parliamo di stringatezza dell’edizione maschile della fashion week ci riferiamo, più che a un’effettiva mancanza di eventi, al fatto che il calendario della fashion week offre poca varietà rispetto agli storici (soliti?) brand e all’occasionale arrivo di visitatori occasionali come Martine Rose e Dunhill quest’anno. Ma se i due nuovi arrivati britannici non fossero venuti e se JW Anderson avesse deciso di sfilare a Parigi o Londra, la fashion week maschile sarebbe stata un ben magro banchetto – un po’ come un antico circolo per aristocratici frequentato ormai da cinque o sei soci storici ma disertato dai giovani. E parlando di giovani, occorre rivolgersi anche alla retorica del newcomer che ancora anima parte della stampa: Simon Cracker e Magliano, i due nomi “giovani” della settimana, sono attivi rispettivamente da quattordici e otto anni; mentre Dhruv Kapoor, divenuto una presenza fissa da qualche anno, è aperto da undici. Se volessimo conteggiare anche gli “anni” di Martine Rose noteremmo che l’azienda ha 17 anni: difficilmente classificabile come un’emergente, anzi, un brand ormai ben stabilito. Ma dove sono le sorprese?

I brand emergenti presenti nella rassegna della Milan Fashion Week, da Pecoranera a Via Piave 33, fino allo stupendo Setchu, GR10K, Mordecai, Gams Note, il "nuovo" Diomene dello storico designer Damir Doma, Maragno, sono alcuni esempi di nomi giovani e interessanti, tutti capaci di proporre alternative a un’estetica dominante che quest’anno, pur nell’alto livello delle proposte viste in passerella, viene da brand troppo istituzionali per rappresentare istanze creative più underground, ma anche espressioni di eventuali subculture. Una cosa di cui Jonathan Anderson ha parlato nel backstage del suo show dicendo come, andando al Primavera Sound, si fosse reso conto che i ragazzi del mondo reale (stiamo parafrasando) erano vestiti in maniera più radicale e originale di qualunque nuova collezione vista in passerella.

A Milano, i diversi brand emergenti che comunque sono presenti in calendario restano appunto relegati nel settore delle presentazioni che, infatti, quest’anno, sono state forse la parte più stimolante delle nuove proposte – quando non è stata sommersa da una maggioranza di altri brand di abbigliamento e calzature sicuramente eccellenti e validissimi ma dedicati sostanzialmente a pantaloni chino, overshirt dai toni neutri, scarpe di pelle identiche a se stesse da interi decenni. L’unico momento, se non di esaltazione estetica ma almeno di entusiasmo condiviso, l’unico momento davvero divertente, privo di filtri e in cui si è sentita la presenza delle nuove generazioni, è stata la presentazione di PDF che ha visto un’esibizione a sorpresa di una buona fetta della scena trap italiana: piacciano o meno lo stile di Formichetti o la scena trap, questo è stato uno show attuale – se non altro culturalmente. Con buona pace delle collaborazioni dei brand con artisti celeberrimi ma che i membri dell’audience devono cercare su rapidamente su Wikipedia per far finta di conoscerli.

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Anche altri hanno sentito la dissonanza: Samuel Hine di GQ parla di «due fashion week strizzate insieme» riferendosi ai due mondi separati che convivono nel cortissimo calendario; come riporta WSJ, invece, Jonathan Anderson si è domandato «la moda è diventata così conservatrice che ciò che accade là fuori è in realtà molto più all'avanguardia?»; Silvia Schirinzi ha invece scritto che, a Milano, «su tutto aleggia infatti una certa decadenza, un’ironia a volte malinconica». Guardando invece a Parigi e alla fashion week maschile attualmente in corso, il quadro si fa ben più variegato: brand di nicchia giapponesi come Auralee e Maison Mihara Yasuhiro convivono con Louis Vuitton e Dior; dopo lo show istituzionale si va tutti alla sfilata di Prototypes dove si presenta a sorpresa Kanye West; nella stessa giornata vediamo il classicismo fluido di Lemaire e le malinconiche fantasie di Undercover; al sole di Loewe si contrappone la drammaticità di Rick Owens e via dicendo.

La loro diversità, unita alla loro contiguità nella cornice della programmazione parigina, rendono tutti più forti dato che le rispettive presenze in calendario si legittimano a vicenda per così dire e difficilmente un brand risulta un outsider o comunque una proposta radicalmente diversa come è stata, ad esempio, Martine Rose a Milano quest’anno. Sul piano logistico, invece, il respiro più ampio del calendario, con ritmo meno serrato tra i diversi show, crea spazio anche per presentazioni che includono, a seconda della stagione, anche brand che normalmente sfilano (Courregès e Acne Studios ad esempio) e non sono solo un’area separata per esordienti o brand indie dalle risorse limitate. Il rischio di non provare a dare una scossa al torpido quadro milanese è quello di spaccare il sistema moda cittadino separando rigidamente le realtà istituzionali bisognose di freschezza da quelle indipendenti che sono invece bisognose di visibilità.