Come la moda è diventata merch
Dalla fine delle subculture alle conseguenze dell'hype culture
12 Giugno 2024
C’è stato un tempo in cui il merch era circoscritto al mondo della musica, relegato ai gruppi di fanatici che amavano indossare una tee con la grafica degli album delle loro band preferite. L’unico messaggio che si proponeva di comunicare la maglietta con il nome di un gruppo era la passione di un individuo per quell’artista, la voglia scalpitante di dimostrare al mondo che loro, a quella data del tour che hanno segnata sulla schiena, c’erano. C’è stato poi un tempo in cui il merch si è trasformato in articolo di lusso, status symbol per pochi fortunati. Non più manifestazione estetica di una subcultura, ma golden ticket per il mondo di quelli che, di fronte al loro artista preferito, non cantano a squarciagola, ma tirano fuori Instagram per postare una story. Sebbene possa sembrare che il valore del merch originario (quello dei concerti e dei fan) sia diverso da quello attuale (quello dei brand e dei drop), entrambi hanno da sempre viaggiato sulla stessa linea d’onda: il fattore scarsità, sdoganato nel mondo della moda prima da titani dello streetwear come Supreme, poi da giganti del lusso come Louis Vuitton. Del resto, nel mondo della Hype Culture vige la stessa regola dell’industria dei concerti, chi prima arriva meglio alloggia e via dicendo. Agli inizi degli anni 2000, Supreme ha rivoluzionato la maniera in cui vediamo il merch, senza sapere però che avrebbe cambiato per sempre anche quella in cui lo vendiamo.
Nel 2021, Highsnobiety chiamava “MerchTainment” la cultura del merch come unica vera star della fashion industry, una potenza che oggi sembra essere riuscita ad inglobare tutto, persino it-bag storiche come la Speedy di Louis Vuitton. In “Everything is Merch”, Ana Andjelic e Eugene Rabkin descrivono la Millionaire realizzata da Pharrell per il suo primo show alla direzione creativa di LV Men come l’ultimo, esemplare stadio della trasformazione della moda tutta in merch. «La necessità di segnalare i propri beni non è scomparsa, ma anzi, nel mondo dei social media, è aumentata», scrivono Andjelic e Rabkin. Offrendo esempi che viaggiano dalle Nike Jordan al pacchetto di patatine Balenciaga, arrivano a sostenere che «tutto può essere tramutato in merch se viene infuso da abbastanza valore simbolico e capitale culturale», e che può venire suddiviso nelle seguenti categorie: giocattoli, pun, simulazione, fantasy, riferimenti, kitsch e camp. In una drastica suddivisione categoriale che riesce a differenziare la borsa piccione di JW Anderson da quella ad asparago dello stesso brand (la prima è un giocattolo, la seconda è un pun), la moda diventa riducibile a oggetto capace di proiettare l’indossatore nel bel mezzo di una community che parla la sua stessa lingua, senza il bisogno di andare a nessun concerto. E pensare che un tempo si diceva che la moda potesse liberarci dal conformismo nel nome dell'auto espressione.
Nel bel mezzo di tutto il negativismo che ribolle tra chi scrive della “fine del merch” - c’è chi dice sia colpa del lusso, chi del cinema, chi dei ristoranti, e chi di tutto il settore messo insieme - sorge una domanda: perché, se alla base del concetto di merch c’è il suo valore di rarità, sentiamo che il merch dei brand è meno autentico di quello “di una volta”? Come spesso accade quando si cerca il motivo dietro un fenomeno che influenza il mondo della moda, la risposta va cercata nelle strade dove è nato. Nei negozi di Supreme, agli albori della rivoluzionaria Hype Culture, tra i clienti che si strattonavano per mettere le mani su quelle maglie logate non c’erano i rapper multimilionari, proprietari di jet privati e personale al seguito. C’erano sì gli artisti famosi, ma sono venuti dopo: i primi erano i ragazzini, gli skater e le community di artisti che bazzicavano le strade attorno allo store. Ancora prima, la popolarità delle t-shirt dei Nirvana non nasce perché qualche modella l’ha indossata al Coachella nel 2016, ma perché vent’anni prima ottenere quella maglia voleva dire prendersi a spintoni - e forse anche di più - con qualche altro fan della band a fine concerto. Ciò che rende una t-shirt qualunque un’icona non è una grafica carina o una celebrity che si fa fotografare mentre la indossa, ma il retroscena di come è nata. Motivo per cui, malgrado tutti i mi piace e le views che può raccogliere, non sarà una maison che vende borse a un milione di euro a farci credere che il suo logo sia il più cool del mondo. Il merch più bello resterà sempre quello sudato e stropicciato, strappato dalle mani di un altro fan a fine concerto, non la maglia stirata e nuova di pacca che il commesso sta ripiegando in otto chili di carta velina.