La rivincita dei mall brand
Derisi, accusati, pieni di soldi
07 Giugno 2024
All’inizio del mese la venditrice di Depop, Jules Berg, è diventata virale su TikTok per aver messo in vendita un paio di short sbrilluccianti di Forever21 a 298 dollari. Il prezzo di quegli shorts era parso assai esagerato a praticamente chiunque considerato che Forever21 è un cosiddetto “mall brand” ovvero uno di quei marchi della grande distribuzione, con grandi catene di negozi un po’ in tutto il mondo, spesso concentrate nei centri commerciali o nelle vie dello shopping di massa. La venditrice in questione si specializza nel rivendere questi brand, che vanno da Gap a Hollister, da Abercrombie & Fitch ad American Eagle, passando per diversi altri marchi meno globalmente celebri. A un certo punto Berg è stata anche contattata dallo stylist di Sabrina Carpenter che ha acquistato da lei un tubino dorato di Cache, un altro mall brand americano fallito nel 2015. Il successo della venditrice, che ha un vero e proprio negozio nella sua pagina, fa riflettere su come certe frange dei consumatori di secondhand, sulla scia della nostalgia Y2K, si siano gettati a capofitto nella ricerca di quei brand “adolescenziali” che un tempo si trovavano proprio nei centri commerciali come ad esempio American Apparel, ma anche Maui&Sons o Scorpion Bay. Ma la rivincita di quei brand non riguarda solo la nostalgia: dopo anni di reputazione ai minimi storici, la combinazione di consumismo pervasivo e prezzi al rialzo dei brand premium hanno spinto frotte di consumatori tra le braccia dei vecchi mall brand che, nei primi mesi del 2024, stanno recuperando tutto il terreno perduto.
Gen Z vs. Millennial descriptions on resale sites
— Danielle Vermeer (@DLVermeer) May 14, 2024
millennial:
sequin shorts I wore to the club with Jeffrey Campbell boots in 2011 = $15
gen z:
vintage RARE Forever21 sequin leopard print shorts similar to viral vintage Charlotte Russe shorts = $298
the shorts: pic.twitter.com/QWNc7hE7mD
Nel primo trimestre del 2024, la casa madre di Zara, Inditex, ha registrato una crescita del 10,6% a valuta costante, con vendite da 8,2 miliardi di euro. E anche se il margine lordo è stato leggermente più debole del previsto a causa degli impatti sui prezzi derivanti dai recenti aumenti, il suo modello di business differenziato ha portato a una forte sovraperformance, specialmente rispetto al rivale H&M. Nel secondo trimestre, le vendite sono continuate a crescere, aumentando del 12 percento anno su anno, con un utile lordo di 4,9 miliardi di euro, un EBITDA che è salito a 2,4 miliardi di euro e un utile netto che è aumentato a 1,3 miliardi di euro. Anche Abercrombie & Fitch Co. ha riportato risultati solidi, con un utile netto per il primo trimestre che ha raggiunto i 115 milioni di dollari e un utile operativo di 130 milioni di dollari. Le vendite nette sono aumentate del 22%, raggiungendo 1 miliardo di dollari. L’azienda ha anche aumentato le sue previsioni per il 2024, prevedendo un aumento delle vendite di circa il 10%. Guess Inc. ha registrato un aumento dei ricavi nel primo trimestre, con 592 milioni di dollari e la previsione che i ricavi annuali per l'anno fiscale 2025 supereranno i 3 miliardi di dollari, grazie all'acquisizione di Rag & Bone; mentre Gap Inc. ha riportato un utile netto di 158 milioni di dollari, con vendite nette in aumento del 3%, che hanno raggiunto i 3,4 miliardi di dollari. E anche questa azienda ha aumentato le sue previsioni per il 2024, prevedendo un aumento dell'utile operativo di circa il 40%.
Ora, i tre casi citati sono comunque esempi indicativi, dato che ciascuna azienda ha vissuto periodi più o meno complessi in passato, tra COVID e inflazione; ma anche perché non c’è stato un totale trionfo commerciale – non di meno, la fiducia che il mondo finanziario prova verso questo settore dell’industria è eloquente. Sappiamo ad esempio che nelle prossime settimane, previe autorizzazioni governative, Shein potrebbe valutarsi sulla borsa di Londra per circa tre miliardi mentre un altro brand cinese, Halara, specializzato in abbigliamento sportivo a costi stracciati, sta provando a inserirsi nel mercato statunitense con una serie di negozi fisici – e dunque moltiplicando i propri sforzi e investimenti nel diventare una catena di negozi non troppo diversa da quelle che già popolano i centri commerciali di mezzo mondo. Al di là delle preoccupazioni sulla sostenibilità e sull’etica generale delle operazioni di queste grandi società, per cui la trasparenza non è sempre un punto forte, e che comunque non turbano troppo la clientela, pare quasi che la saturazione del mercato, abbinata all’abbassamento dell’asticella della qualità abbia portato vaste fasce di clientela a inseguire la convenienza economica. Marchi come Zara, H&M o COSA vanno ricostruendo la propria immagine a somiglianza dei brand più premium con campagne che vedono protagoniste Vittoria Ceretti o Kirsten McMenamy, scattate da fotografi del calibro di Paolo Roversi ma anche collaborazioni con brand come Studio Nicholson o TwoJeys.
Just bought one of those baggy Zara camp collar shirts to wear in Greece and now I have the “he looks just like every other bitch” tiktok sound on loop in my brain
— Troy Petrunoff (@troypetrunoff) August 20, 2022
Ma da un punto di vista culturale, cos’è che ha spinto il pubblico a tornare verso quei mall brand? Al di là della già citata politura che questi brand hanno dato alla propria immagine, uno dei principali fattori, si potrebbe ipotizzare, è quello dell’intercambiabilità dei design nelle categorie merceologiche più fortemente commerciali. Prodotti come i jeans baggy di Zara, i pantaloni argentati di Mango o i Column Jeans di COS; ma anche le t-shirt di Uniqlo, le hoodie di Weekday, i maglioni di Arket, i completi e i profumi di Gutteridge, le maxi-borse di Massimo Dutti oltre che i vestiti di & Other Stories sono tutti prodotti che una fetta di pubblico immensa, che magari indossa anche pezzi firmati, non esita a comprare: la giacca è di design, la t-shirt viene da Zara. Sono in fondo gli abiti comunemente definiti “da battaglia”, che si indossano senza ansie di sentire il rumore di uno strappo o di scoprire una nuova macchia e che spesso paradossalmente durano anni e anni negli armadi e nei cassetti. Anche i consumatori più esperti del lusso sanno che per t-shirt, jeans e in generale per tutti quei pezzi “semplici” non esiste questa enorme differenza tra l’uno e l’altro – almeno visivamente parlando. Dal punto di vista della costruzione, dei materiali e di tutti i dettagli più tecnici l’ecosistema di blogger e tiktoker che analizzano le cuciture, comparano identici modelli tra diversi brand e valutano i materiali è tanto grande (oltre che più giovane) quanto quello della moda “vera”, la cui attuale regina è la tiktoker e autrice Andrea Cheong.
@andreacheong_ A review dedicated to those who like to shop the menswear department! #cos #cosfashion #menswearstyle #howtoshopsustainably #mindfulmondaymethod #mensstyletips #mensfashiontips #wardrobebasics #boyfriendstyle original sound - Andrea
La colpa di questa assimilazione è forse il gioco al ribasso che alcuni brand di lusso fanno con la qualità dei propri abiti e accessori: gonne e giacche di poliammide, tanto sintetiche quanto quelle che si trovano da Primark; capi in viscosa privi di qualunque struttura e identici a quelli dei tanto vituperati mall brand; design ipersemplificati che vedono molti dettagli sparire sul piano delle fodere, dei polsini e soprattutto dei dettagli delle tasche creando un alto risparmio sulla grande scala della produzione industriale. Il grande pubblico, così diseducato, e ovviamente non troppo desideroso di spendere alte cifre, ma anche confortato dal nuovo aspetto pulito e lussuoso che brand come Zara e Abercrombie hanno adottato di recente, finisce per non vedere dove stia la differenza, che ovviamente c'è sul piano dei materiali e delle finiture ma di cui è difficile accorgersi esternamente o in foto - e su quello di cui gli altri non si accorgono, più facilmente si chiude un occhio. Ma questa crescita che i mall brands sembrano avere avuto evidenzia, in modo indiretto, l’esistenza di una grande domanda (e dunque di una grande opportunità di mercato) per brand meno “impersonali” e massificati di quelli della grande distribuzione e più locali che riescano a costruire un modello di business che fa derivare i propri guadagni dalla vendita di prodotti accessibili. Chiunque riuscirà a trovare quella semi-invisibile “terra di mezzo” troverà anche una miniera d’oro.