«Come una tempesta perfetta», intervista al designer di AREA
Piotrek Panszczyk sui jeans di Taylor Swift al Super Bowl e sul futuro del brand in Italia
06 Giugno 2024
«Non è ancora una cosa ufficiale, ma stiamo iniziando a farlo sapere in giro», dice Piotrek Panszczyk, direttore creativo di AREA, dopo averci rivelato che presto la produzione del suo brand si sposterà in Italia. «Circa due anni fa abbiamo visto un cambiamento nella maniera in cui vogliamo produrre i nostri vestiti. È stato un grande passo. Per diversi motivi: sì, c’è la qualità della produzione; ma quello che cerchiamo noi è più esperienza. Abbiamo bisogno di persone che abbiano trenta, quarant’anni di esperienza – non tre». La notizia è ottima dato che AREA è uno dei brand più forti della scena di New York – e ancora più forte oggi dopo che, per il suo concerto al Super Bowl, appena dopo il loro ultimo show, Taylor Swift ha indossato i loro jeans ricoperti di cristalli mettendo il brand sotto i riflettori di mezzo mondo. «È stata una tempesta perfetta», commenta Kareem Burke, che si occupa del marketing e delle comunicazioni mentre a New York la co-founder Beckett Fogg ricopre il ruolo di CEO. Certo, il duo creativo sta ancora esplorando la città, sondando l’atmosfera né abbandonerà la New York Fashion Week, preferendo magari pensare a un’attivazione culturale a Milano «per stabilire il tono» e non entrare a gamba tesa nell’ecosistema cittadino – non di meno, per un verso o per l’altro, New York, almeno in termini di maestranze, inizia ad andare stretta a entrambi. «Penso che il nostro problema a New York», spiega Panszcyk, «è che siamo troppo diversi lì e a volte è difficile trovare nostri pari con esperienza nello stesso tipo di abiti».
La decisione dei due di spostare la produzione in Italia è stata anche dettata da una certa sfiducia nei confronti delle istituzioni della moda americane. «New York è più aperta, più trasgressiva. Ci sono molte cose belle ed è una città così avanzata», racconta Panszcyk. «Ma credo che il modo in cui i finanziamenti e l'industria sono impostati, il sistema, non funzioni correttamente. Ho la sensazione che quelli ai piani alti stiano in fondo cercando finanziamenti per se stessi e poi portino designer e li sponsorizzino qua e là, ma non è una questione di longevità. Si tratta più che altro di un imbuto di denaro di cui hanno bisogno per esistere come sistema, invece di pensare davvero alle persone sotto di loro che lo costruiranno per loro. È una visione miope, venale». E forse se le collezioni di AREA hanno avuto il successo che hanno avuto, dato che il brand è uno dei pochi che oggi vende, è presente sulle strade e non solo sui social, e non ha bisogno di regalare abiti ai VIP che, come nel caso di Taylor Swift, li comprano da sé, è proprio perché tanto Panszyck che Burke lavorano nell’ottica della longevità: il loro brand è nato per restare, non inseguono qualcosa che svanirà fra tre mesi o un anno. «Per noi è sempre importante concentrarci su ciò che cerchiamo di fare davvero. E credo che si tratti di cose desiderabili, che ti toccano e ti spingono a comprare è perché fanno qualcosa per te, per la tua personalità. È trasformativo. E credo che questo sia in un certo senso la base e l'essenza del lusso per noi. Noi ti daremo qualcosa che forse non è così neutrale, ma ciò che conta è cosa ci fai tu».
Se AREA è diventato un cult brand in relativamente poco tempo, è grazie a un meccanismo tutto sommato semplice: la merce piace e vende, chi la compra torna a comprarne ancora, ma soprattutto si tratta di abiti dotati di una propria personalità. Il che non significa né che gli abiti in sé siano strani per il gusto di esserlo, né parte di quel filone modernista/minimalista in stile Phoebe Philo. «Perché quando fai la stessa cosa per dieci anni diventi bravo?», domanda Panszyck. «Perché ti sei preso il tempo di perfezionarla. E credo che questo sia il modo in cui anche noi vediamo la nostra etica e la nostra direzione. Sì, forse a volte è meno trendy, forse in giro vanno e vengono trend in cui ci ritroviamo o meno». Un risultato che ha attirato intorno al brand «una base di clienti molto fedele» riassumibile nella figura di una donna che « è sempre una persona che desidera sempre qualcosa che si distingua, invece di confondersi con il resto del mondo». Questo però non preclude nulla ai due: «Forse la cosa cambierà nel tempo, forse il brand esplorerà territori diversi ma penso che nella sua etica e nella sua essenza non cambierà mai». In tutto questo contesto la community che ruota intorno al brand (il nome AREA si riferisce proprio a uno spazio aperto in cui le persone possono ritrovarsi, passare o tornare) è essenziale: «Anzitutto c'è la comunità diretta di persone con cui lavoriamo, gli artisti che creano immagini con noi. Ma poi, oltre a questo, ci sono anche persone intorno a quella comunità, nella vita notturna e nell'arte, con cui inizi a relazionarti, sai, persone che ammiri davvero. E credo che New York sia una città ideale per questo. Se abbiamo una cosa, sono le persone iconiche, no? Non ci sono queste persone in nessun altro posto».
Ma quando si parla di AREA bisogna necessariamente discutere del modello di business del brand. Un modello di business che potremmo definire innovativo ma per cui la definizione corretta sarebbe “intuitivo”: i due founder hanno sistematicamente aggirato le diverse illogicità e perdite di tempo che spesso la moda impone con i suoi sistemi di presentazione e distribuzione. «Dopo il COVID, abbiamo avuto molte opportunità per ripensare la nostra attività e vedere come può trasformarsi in futuro. Abbiamo deciso di cambiare il nostro show in un format “see now by now”». Sappiamo che diversi brand hanno sperimentato con questo format nei tempi del COVID, tra cui anche Jacquemus, ma la misura ha avuto i risultati sperati solo con brand indipendenti come AREA. «Una volta sviluppato il prodotto e l'idea di ciò che è il prodotto, e dopo averlo venduto abbiamo ancora qualche mese per costruire la narrazione per lo show sulla base di ciò che è stato prodotto. Ma anche dal punto di vista concettuale, quando devi mettere insieme tutte queste cose, è così difficile avere qualcosa di valido, un prodotto fantastico, un tempismo perfetto. È quasi troppo. Ma lavorando in questo modo, possiamo davvero creare il giusto impeto». In breve, decidendo di lasciarsi alle spalle il meccanismo di campagna vendite, ordinazione, produzione, stoccaggio e distribuzione, i due sono riusciti a fare in modo di calcolare tutto in anticipo minimizzando l’invenduto, traducendo le views e interazioni social dello show in vendite dirette e anche creando un senso di sincronicità che ha l’effetto psicologico di far sentire i clienti partecipi del drop. «L'idea della sfilata. Ne abbiamo bisogno o no?», si domanda Panszyck. «È qualcosa di molto primordiale o qualcosa con cui le persone si relazionano davvero. E può davvero fare qualcosa per il nostro business: una sfilata di moda diventa un momento che fa salire alle stelle la visibilità in tutto il mondo».
Nelle parole di Panszyck, l’effetto prodotto da questa sincronizzazione delle attività del brand è esplosivo: «Quello che vediamo succedere è che, una volta fatta, la sfilata risuona davvero con le persone, perché il tema diventa davvero la trama di tutto, l'invito, le persone che vengono, il concetto… Si tratta davvero di un climax, e per il cliente è semplicemente incredibile potere comprare tutto subito, potere averlo, nello stesso momento in cui anche le celebrità possono comprarlo». Ma come funziona precisamente un meccanismo del genere? Sicuramente ci sono diversi passaggi e complicazioni, ma Panszyck ce lo spiega in termini molto generali: «In pratica vendiamo la collezione all'ingrosso ma sotto embargo. Nessuno deve portarlo fuori o mostrarlo, deve solo essere prodotto. Poi, quando arriva in negozio, subito dopo la sfilata, la gente può acquistarlo immediatamente. Funziona molto bene». È chiaro che questo meccanismo non può funzionare solo su una base commerciale, ovvero non ci può essere una micro-release di pezzi commerciali subito che anticipano la collezione. Se il format va adottato, va adottato per intero: «È necessario impegnarsi a fondo, far sì che il prodotto ci sia tutto, invece che avere una maglietta stampata con un logo e basta. Credo sia comunque importante che la cliente senta di poter acquistare l'intera collezione». A questo modello si aggiunge l’idea di raccogliere i feedback di clienti e utenti per calibrare al meglio la produzione di ciò che arriva in negozio: «La cosa più importante sono i nostri clienti e i nostri fan che forse diventeranno clienti in futuro. È sempre importante raccogliere tutti i loro feedback, ascoltarli, e credo che questo sia il motivo per cui anche il nostro e-commerce sta crescendo molto in un mercato molto instabile. Ascoltiamo e guardiamo cosa fanno, chi sono, come si evolvono».
Per AREA, il business è qualcosa di pragmatico o di «scientifico», per usare le parole di Panszyck. «È possibile ripulire i dati, scomporli e analizzarli in base a ciò di cui si ha realmente bisogno. E credo che, come giovane brand, si tratti sempre più di trovare ciò che si è veramente bravi a fare e spingerci su». Sicuramente, sia dal punto di vista creativo che da quello economico, ma anche sul piano della continuità, produrre troppo per rincorrere il ciclo dei trend «è una tentazione» a cui però i founder del brand non hanno ceduto nell’ottica di lavorare a un progetto che non perdesse slancio dopo solo qualche stagione o qualche anno. «La nostra collezione vive come un prodotto nel mondo. Quindi è necessario creare un prodotto intelligente e avere buone idee. Ma possono essere buone idee per quattro anni invece che per una stagione? Imparare a pensare alla continuità è molto importante, perché così rimane in vendita per un periodo più lungo e ci sono meno cambiamenti. Non c'è bisogno di sconti. Per noi è molto importante cambiare dal punto di vista della produzione, fare un po' meno del solito. E dato che è più gestibile, non abbiamo eccesso d’inventario. Cerchiamo di concentrarci al massimo e di guardare ai sell through e di prendere decisioni intelligenti». Ma non bisogna pensare che questo approccio pragmatico, sia anche un approccio semplicistico: alla base di questa flessibilità, questa volontà di mettere a punto un business model nuovo per tempi nuovi, c’è tanto una continua rincorsa all’eccellenza che la ancora più dura saggezza di trattenersi dal premere troppo sull’acceleratore. «Credo che per noi si tratti più che altro di dare il meglio di noi stessi, di voler fare il meglio, di voler essere i migliori o addirittura di realizzare qualcosa al meglio. Sì, vogliamo crescere, ma dobbiamo farlo in modo responsabile. Bisogna crescere senza crescere troppo».