L’ora più buia per la moda indie
Limitato per ora al Regno Unito, il disastro può essere evitato
31 Maggio 2024
Nella lingua inglese ci si riferisce spesso a catastrofi e calamità naturali con il nome, un po’ fatalistico, di “acts of God”. Ma se è dibattibile che divinità di questo o quel pantheon passino tempo a mandare sulla terra grandine e uragani, ciò che sta succedendo ai brand indipendenti di moda in questi giorni sembra in effetti l’inizio della fine. In ordine sparso: Dion Lee chiama amministratori per gestire insolvenze che paiono già terminali, Roksanda si fa comprare per salvarsi dal fallimento, Calvin Luo annuncia la progressiva chiusura del proprio brand da finalizzare a fine anno, mentre Mara Hoffman e soprattutto The Vampire’s Wife annunciano chiaro e tondo la chiusura. Per non parlare di come due altri giovanissimi brand di culto, Puppets & Puppets e Mia Vesper, abbiano deciso di abbandonare del tutto sfilate e fashion week per concentrarsi rispettivamente su borse e gioielleria. Se si dice di solito che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza e tre indizi sono una prova, questa settimana ci ha dato la dimostrazione inconfutabile che i brand indipendenti di tutto il mondo stanno letteralmente lottando per la propria vita. E in tempi in cui anche i titani dell’industria, LVMH e Kering, soffrono non poco a causa del tracollo dei consumi, la saturazione del mercato e il collasso finanziario dei grandi e-commerce, ci si può attendere che, miracoli a parte, la situazione non accennerà a migliorare.
In questo momento, l’epicentro della crisi pare essere Londra, dove la disastrosa implosione di Matchesfashion ha creato una voragine di debiti insolvibili verso i brand che, tra l’altro, non possono nemmeno rimettere le mani sul proprio stock invenduto. Per chiarire la situazione, Matchesfashion deve mezzo milione di sterline a Burberry, centomila a Paul Smith, settantamila al piccolo brand di gioielleria Alighieri… la lista continua con diversi brand che sono stati trascinati dal gorgo degli e-commerce morenti. Questi brand, infatti, appoggiavano quasi l’interità della propria distribuzione a questi e-commerce multimarca senza però avere un network distributivo indipendente come risorsa d’emergenza. E quest’anno retailer multimarca come Matchesfashion, Farfetch, Yoox Net-a-Porter hanno visto i propri affari sgretolarsi: erano modelli non sempre funzionali, drogati dai traffici del mercato parallelo, piagati dai continui resi del pubblico, da una scontistica fuori controllo che indisponeva tanto brand che retailer singoli. Anche in Italia, di recente, il multimarca Modes ha fatto ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo “con riserva” per gestire delle insolvenze. Per tornare al Regno Unito, comunque, tutta la moda è stata fortemente penalizzata: oltre ai problemi economici causati dalla Brexit, che hanno inciso sul potere di spesa delle famiglie, l’abolizione dello shopping tax-free per i turisti quattro anni fa ha molto penalizzato i retailer dato che tanti turisti e residenti preferiscono viaggiare sul continente per il proprio shopping. Di fronte alla moria di brand e alle difficoltà commerciali, una schiera di nomi associata alla moda londinese è emigrata in Italia per questa stagione: Martin Rose, David Koma e Dunhill organizzeranno i propri show a Milano, Paul Smith invece a Firenze.
Questa “carestia” generalizzata era stata prefigurata l’anno scorso con la chiusura di Cristopher Kane e, per alcuni, prefigura disastri ancora maggiori. «La moda è un ecosistema, c’è sempre una reazione a catena», ha detto a The Guardian la fondatrice di 1Granary, Olya Kuryshchuk. Mentre Sarah Mower di Vogue ha scritto che «quello che è successo a Matches non è qualcosa che può essere visto in modo isolato. Sembra un indicatore di ciò che sta accadendo in tutto il settore». Sempre su Vogue, Sarah Schultz dice che «Matches è un sintomo, non la causa principale. Il fatto che il crollo di un singolo rivenditore abbia potuto paralizzare così tante aziende indica che il sostegno dell'industria non era sufficiente fin dall'inizio». Ma forse è qui che si annida il primo problema concettuale: diversi articoli di autorevoli testate invocano, come soluzione, un ulteriore aiuto del governo che, per loro, dovrebbe occuparsi di un’industria che porta 60 miliardi di sterline annui al prodotto interno lordo del Regno Unito. In effetti, le tasse sono il principale peso sulle piccole aziende oltre che le spese della pubblicità online e i costi moltiplicati del dover seguire due operazioni logistiche a casa propria e in Europa. Ma se il problema è l’insostenibilità di un business o un sistema di business, perché pensare che il governo possa risolvere ogni problema mettendo mano al metaforico portafoglio? La previdenza e i sussidi economici del governo sono solo un palliativo, una misura temporanea mentre i brand indipendenti (ma anche l’intera industria della moda) sembrano al momento incastrati dentro una trappola malthusiana.
too many fashion brands, not enough sauce
— ROD (@iimrod) June 2, 2023
Il concetto di “trappola malthusiana” indica la situazione in cui la popolazione di una certa area cresce più rapidamente della disponibilità di risorse necessarie alla vita. Per spostare il concetto nell’industria della moda, molto banalmente, sul mercato ci sono più brand di quanti la clientela possa ragionevolmente sostenerne coi propri acquisti. Finora la bolla era rimasta più o meno in piedi ma adesso, tra inflazioni e costi della vita al rialzo in tutto il mondo, è scoppiata. Il che sposta il problema sull’accessibilità: la svendita finale di The Vampire’s Wife ha attirato tantissime persone a Londra, dimostrando che una clientela per gli abiti ci sarebbe se, banalmente, costassero meno. Non è un caso che di questi tempi le sample sale vengano prese d’assalto. Nel caso di The Vampire’s Wife, ad esempio, il vestito Falconetti, il modello più iconico del brand, ha un prezzo che si aggira tra i 1500 e i 2000 euro. Poco rispetto ai prezzi dei brand di lusso che ormai richiedono importi sempre più oscenamente alti per i propri prodotti, ma comunque una cifra inarrivabile anche per una professionista di reddito medio-alto che dovrebbe rinunciare a metà del proprio stipendio per comprarne uno. È chiaro che esistono costi di produzione per il lavoro etico che rendono gli abiti di qualità costosi – non di meno, se il prodotto finale è troppo costoso la gente non lo comprerà. Il problema, insomma, potrebbe essere identificato nel fatto che la clientela esiste ma è disposta a spendere un terzo di ciò che molti brand di moda, sia indie che non, richiedono. Tanto più che il mercato sta traboccando di brand che spesso chi è fuori dalla bolla delle fashion week nemmeno conosce.
@andreacheong_ I think the fit is lovely and i like that they have a core offering and its not always newness. But for the price… not worth it IMO #vampireswife #mindfulmondaymethod #howtoshopsustainably #blacktiedress #katemiddletonstyle #howtolookexpensive #sustainablefashiontips #shoppingtiktok original sound - Andrea
Rivolgersi ai soli ricchi (un abito da 1500 euro e una camicia da 1000 sono per ricchi) limita di molto la propria clientela e dunque il proprio flusso di cassa: anche un individuo ad alto reddito può rinunciare a un acquisto se vede un prezzo a quattro cifre sull’etichetta di una semplice camicia. Nel frattempo, le possibili clienti di quell’abito vanno altrove. Da Elisabetta Franchi, ad esempio, dato che i suoi abiti costano la metà – tanto che Marco Bizzarri, imprenditore espertissimo delle dinamiche di settore, ha investito proprio nel suo brand diventandone presidente, quasi un simbolo del mercato medio italiano, sicuramente prevedendo una sua futura crescita. È qui che con ogni certezza si nasconde la vena aurifera, è qui che larghe masse di clientela troppo esperta per comprare fast fashion ma troppo povera per Monte Napoleone si stanno già radunando con i portafogli alla mano. In fondo non si può vivere di solo vintage e secondhand. Spiace solo per tutti quei brand che, ossessionati dalla caccia trimestrale al riposizionamento sul mercato, hanno voluto scalare l’Olimpo del lusso solo per scoprire che in cima alla montagna non c’è spazio per tutti quanti.