Cosa sta succedendo da Benetton?
Il culmine di una crisi che va avanti da decenni
29 Maggio 2024
Il Benetton Group, a cui fa capo l’iconica catena di negozi d’abbigliamento italiani, ha approvato il bilancio del 2023 lo scorso martedì, durante un consiglio di amministrazione in cui si è parlato di una perdita operativa enorme, che si aggira intorno ai 113 milioni di euro, e di una perdita complessiva di 230 milioni di euro. Il risultato, in realtà, era già stato anticipato dal cofondatore e presidente del gruppo, Luciano Benetton, al Corriere della Sera, anche se chiunque abiti in Italia ha potuto vedere negli ultimi anni la progressiva scomparsa e svuotamento dei negozi e ha sentito dei molti problemi che hanno colpito il gruppo. Nell’intervista il presidente del gruppo aveva addossato la responsabilità ai dirigenti e specialmente al CEO Massimo Renon che però non ha chiamato per nome. L’ostilità verso Renon comunque si è tradotta nella sua rimozione dal posto di CEO, in cui verrà sostituito dal manager Claudio Sforza. Ma il dato forse più significativo, almeno sul piano aziendale, è che Benetton si è dimesso dalla presidenza del gruppo, ponendo formalmente fine alla “conduzione familiare” del gruppo per la prima volta nella sua storia.
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Diciamo “formalmente” perché la famiglia Benetton continuerà comunque a gestire il gruppo che porta il suo nome tramite la holdong Edizione, società madre di diverse attività incluso il gruppo che si vuole far sopravvivere costi quel che costi dato dà lavoro a 6.000 persone in tutto il mondo, di cui più di 1.000 in Italia. Questo punto, non diciamo drammatico ma sicuramente critico, è il culmine di una crisi che per i Benetton va avanti da qualche tempo. Di recente, i problemi pre-esistenti sono stati portati all’estremo dalla tempesta perfetta di inflazione galoppante, depressioni commerciali causate dai conflitti in Ucraina e a Gaza e ovviamente alla sempre maggiore predominanza sul mercato dei giganti del fast fashion come Zara, H&M e Shein il cui eccezionale boom ha portato il fatturato dell’azienda a dimezzarsi nel corso dell’ultimo decennio: come spiega Il Sole 24Ore, dal 2012 al 2023, il fatturato del gruppo è crollato da due miliardi di euro a poco più di un miliardo, milione più, milione meno. In realtà, il gruppo non si è ancora ripreso dalla batosta che la sua immagine ha ricevuto dopo il crollo del viadotto Polcevera a Genova nel 2018, noto come Ponte Morandi. Edizione, che controllava Autostrade per l’Italia, responsabile della manutenzione del ponte, è stata coinvolta nelle polemiche per la cattiva gestione e manutenzione della struttura e dopo che le indagini hanno rivelato che i problemi erano noti a diversi membri della famiglia Benetton e del management di Edizione, la simpatia del pubblico per la dinastia Benetton è scesa ai minimi storici. L'incidente portò molti a voler boicottare il brand, già di per sè poco frequentato, anche se le proteste non presero mai una forma compiuta.
Secondo me #boicottabenetton non serve a nulla i negozi Benetton per lo più sono tutti in franchising quindi creeresti danni ai poveri cristi che si sono fatti un prestito per aprirsi un negozio ..quindi lasciamo stare e facciamo fare a chi di dovere magistratura in primis
— leonardoPele’ (@leonard34395822) August 15, 2018
Ma, come si diceva, la crisi del gruppo Benetton parte da molto lontano. Se un tempo il nome Benetton era il simbolo del nuovo miracolo economico, del successo imprenditoriale anni ’80 (un po’ come capitato ai Trussardi) il cuore pulsante di un’azienda divenuta enorme nella portata del proprio business, l’abbigliamento, rappresenta oggi solo il 2% della holding che fa capo ai Benetton, ora focalizzata su settori industriali molto distanti da essa. C’è forse da domandarsi se il declino del core business abbia prefigurato o causato quello dell’azienda – anche se sicuramente l’immagine positiva dei Benetton svolgeva un ruolo di facilitatore per i suoi altri e più grandi affari. Tanto che i problemi dell’azienda risalgono al passato, ben prima di drammatiche svolte storiche come gli attacchi dell’11 settembre 2001, la crisi finanziaria del 2008 e la pandemia – e ben prima della grande crisi che la moda sta affrontando oggi. Negli anni 2000, ad esempio, l'azienda ha tardato ad adattarsi alla rivoluzione digitale portata da internet, che ha trasformato radicalmente il settore della moda attraverso l'e-commerce e nuove forme di comunicazione. Ci fu anche, in grado minore, l’ingerenza della famiglia nel contenzioso tra la popolazione indigena Mapuche e il governo argentino dopo che i Benetton acquisirono nel 2003 una compagnia originariamente inglese, proprietaria di circa 900.000 ettari di terra in Patagonia rivendicata dal popolo Mapuche, costretto a vivere in condizioni di sovraffollamento e spesso impiegato come manodopera a basso costo.
Un’altra controversia, questa assai meno grave oggi ma assai accesa all’epoca, fu la campagna UNHATE del 2011 in cui appariva una foto in cui l’allora papa Benedetto XVI pomiciava con un Imam islamico. Si possono immaginare gli effetti in Italia. Il caso fu però emblematico perché precedette il delisting del gruppo nel 2012, che rappresentò forse un primo segno di cedimento per l’enorme business di famiglia. La globalizzazione, poi, spinse Benetton a spostare la produzione in Asia, mantenendo però gli stessi prezzi. Il che creò seri problemi quando, nel 2013, il crollo del Rana Plaza, una delle più grandi “fabbriche” produttrici di abiti fast fashion crollò in Bangladesh uccidendo oltre 1.100 lavoratrici. Benetton era tra i marchi prodotti a basso costo proprio lì e anche se l’evento fu poco diffuso dai media mainstream, la reputazione già opaca dell’azienda ricevette una nuova e grave crepa. Tra le altre controversie c’è stata quella sulla gestione della rete di negozi monomarca, operanti in franchising i cui titolari erano obbligati a raggiungere obiettivi di vendita che non sempre riflettevano la domanda reale del settore, garantendo livelli minimi di forniture e di assortimento, senza che però si assumesse la responsabilità del ritiro e dello smaltimento della merce invenduta – una situazione emersa nel 2019 con uno speciale di Report che, arrivando in coda al caso del Ponte Morando, affossò ancora di più la reputazione della famiglia.
Da un punto di vista di innovazione e stile, poi, Benetton non ha saputo sfruttare la sua diffusione capillare in location chiave sul territorio italiano: a Milano ad esempio il suo negozio era già in Piazza Duomo prima dei vari Zara ed H&M, eppure nel corso degli anni, mentre i due giganti fast-fashion adottavano un modello di produzione iper-adattabile ai trend del momento, portando nei propri negozi modelli simili a quelli visti in passerella anche prima che gli originali arrivassero nei negozi, Benetton si era già adagiato su una totale assenza di creatività producendo collezioni rimaste ferme, stilisticamente parlando, agli anni ’80 in cui il brand era esploso. Nel frattempo i rapidi ed efficienti giganti Inditex ed H&M divoravano il mercato: dal 2013 al 2023, il fatturato di Inditex è più che raddoppiato, passando da 16,7 a 35,9 miliardi di euro, e quello di H&M è cresciuto da 14 a 21 miliardi. Un elemento chiave, qui, è stata la mancata definizione del target di mercato: se Zara e H&M producevano per tutte le fasce ma concentrandosi molto sui giovani e rivoluzionando il loro approccio allo shopping, Benetton è rimasto stagnante. Tardivi sono stati i tentativi di spingere Benetton come marchio streetwear prima e come brand di moda poi, organizzando sfilate alla Milan Fashion Week. Nel 2021, dopo oltre un decennio, Benetton perse il grande flagship in Duomo che deteneva dal 2003: fu la fine (annunciata) di un’era. Toccherà adesso al nuovo CEO, Claudio Sforza, rimettere in ordine la grande casa dei Benetton – resta solo da vedere se la moda e l’abbigliamento conteranno ancora qualcosa nel nuovo assetto.