«Miista è una terra di nessuno»
Intervista a Laura Villasenin, fondatrice e direttrice creativa di Miista
27 Maggio 2024
Sappiamo quanto sia difficile affermarsi nel mondo della moda da azienda indipendente, ma nessuno ha mai dato molto peso alle difficoltà che bisogna affrontare dopo, quando arrivano fama e successo e tocca confrontarsi con i grandi della industry che hanno le spalle parate. È questo l’ostacolo con cui sta facendo i conti Miista, brand con base a Londra e in Spagna fondato dalla designer e shoemaker Laura Villasenin nel 2011 e famoso per il suo approccio anticonvenzionale al footwear. Unendo la qualità della manifattura spagnola a design particolari, che spaziano da punte squadrate a tacchi a rocchetto, da stivali platform in vernice anni ’60 a ballerine in rete di pelle, nel panorama confuso e squilibrato che è la moda Miista sembra sempre stare un passo avanti. Lanciato sul mercato in un periodo in cui la fascinazione per le sneaker aveva ancora la meglio, il brand è riuscito a farsi strada sgomitando tra la folla di brand sportivi sbucati in quegli anni. Oggi la hype culture è passata, ma Miista è ancora qui, indipendente. Ha appena inaugurato il suo primo pop up store a Milano, in Via Nerino fino al 26 giugno, ma come ci racconta Villasenin la liaison tra la città e il brand è cominciata già da qualche anno. «Da quando ho fondato Miista, Milano è stata la città in cui ho incontrato i fornitori più importanti», ci dice la designer. «Gli italiani con l’artigianato ci sono nati, è come se fosse la loro lingua madre, ed è una cosa che abbiamo in comune nella mia città natale, la Galizia, nel nord della Spagna».
Nonostante il nome del brand abbia viaggiato in giro per l’Europa e raggiunto le coste americane, con la recente campagna Miista takes Rio de Jaineiro scattata dalla fotografa brasiliana Fernanda Liberti e la prossima apertura del primo negozio a New York, alla fondatrice non piace definire l’azienda un “impero”. «Miista è una terra di nessuno, una nomade», dichiara, aggiungendo che lei e tutto il team vedono ancora l’azienda come un progetto in divenire, come lo era nel 2011. «Siamo solo un branco di stramboidi Miista sparsi per il mondo». Il lavoro di Villasenin è diviso tra l’ufficio marketing di Londra - città dove la designer ha conseguito i suoi studi di moda - e i centri di produzione tra Galizia e Alicante. La missione del “progetto” è rimasta invariata fin dal primo giorno: «offrire un design che non sia fuori portata, ben realizzato, proteggere la filiera corta e rilanciare l’industria artigiana in Europa». Un’impresa piuttosto difficile, quindi, a cui si aggiunge l’obiettivo di avvicinare le nuove generazioni al lavoro manuale. «Stiamo cercando di renderlo di nuovo cool», dice la fondatrice. A giudicare dalla buona risposta che i contenuti Miista ricevono sulle piattaforme preferite dalla Gen Z, TikTok e Instagram, e dalla folta nicchia di appassionati di manifattura che sta crescendo sulle piattaforme, sembra che abbia funzionato. Il processo di valorizzazione del patrimonio tessile della Galizia iniziato da Villasenin con Miista ha preso una svolta decisiva al decimo anniversario del brand, quando, per il lancio della prima linea di abbigliamento fatto a mano, ha acquistato una fabbrica nella Galizia. «Credevamo con tutto il cuore che fosse importante per la community», afferma la designer. «Che non si trattava solo della qualità del prodotto, ma di dare svolta alla regione rilanciando l’artigianato». Come un vero nomade che ama le strade meno battute, Miista viaggia per le sue. «Abbiamo smesso di farci influenzare, di arrabbiarci o di lasciarci infastidire da ciò che fanno gli altri e abbiamo iniziato a fare la cosa opposta».
La tenacia di Miista è un’arma a doppio taglio: se da un lato ha aiutato il brand ad affermarsi nella industry con rapidità, dall’altro, racconta la designer con rammarico, a volte rischia di offrire una visione sbagliata del brand. «Essere piccoli ma sembrare grandi da fuori», dice Villasenin, è il motivo per cui anche a distanza di anni continua a definire Miista come un “progetto”. «È come se non fossimo più un team, ma una società, e una visione che a noi sembra estranea. Sembra che ci sia sempre meno comprensione dall’altra parte, con i fornitori così come con i creativi che abbiamo sostenuto per anni. Internamente tutto funziona ancora grazie a una stretta cerchia di persone, ma la percezione esterna è diversa». Questa intimità di cui parla Villasenin lo abbiamo potuto osservare di persona all’inaugurazione del primo pop up milanese di Miista questa settimana. Attorno a due grandi macchine da cucire posizionate di fronte alla nuova collezione del brand, i team marketing, social media e pr hanno presentato assieme a due artigiane del brand il processo di produzione delle collezioni. Tra gli sguardi di intesa che si scambiavano emergeva la vera natura raccolta e cooperativa - nonché ultra-femminile - di Miista. Abbiamo avuto un assaggio di quello che avviene tra una creazione e l’altra negli uffici londinesi e nelle fabbriche spagnole del brand. «Tutti i membri dei team di design e di marketing sono invitati a fare un brain dump di ciò che vorrebbero realizzare nella stagione successiva: una collaborazione con un fotografo, un disegno di un costume per un musicista, condividiamo la storia di ognuno».