Il problema del lusso in appalto
Una mano lava l’altra e tutte e due lavano la faccia
09 Aprile 2024
Pochi paiono ricordare, oggi, il secondo capitolo di Gomorra di Roberto Saviano in cui si diceva che il tailleur bianco indossato da Angelina Jolie agli Oscar del 2001 fosse stato in realtà cucito da un sarto di nome Pasquale che lavorava in nero in uno stabilimento clandestino di Arzano. Negli stessi anni erano diventate di dominio pubblico le profonde ambiguità del concetto di Made in Italy e del “criterio dell’ultima lavorazione o trasformazione sostanziale” secondo cui, ad esempio, basta che un certo prodotto sia ultimato in Italia per risultare come fabbricato nel paese. Solo una dimostrazione degli infiniti espedienti che, in sede legale, i brand di moda possono impiegare per risparmiare sulla produzione e alzare i propri margini – forse il segreto più scomodo della moda dato che è il Made in Italy a rappresentare l’eccellenza di un prodotto e giustificarne il prezzo. Negli ultimi tempi, però, questa fiducia ha subito dei duri colpi. Ieri, «dopo la decisione del Tribunale di Milano di disporre l’amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani Operations Spa, società che si occupa di progettazione e produzione di abbigliamento e accessori del gruppo del colosso della moda», si legge in un comunicato ufficiale «il Codacons ha presentato un esposto all’Antitrust e alla Procura della Repubblica di Milano chiedendo di accertare eventuali illeciti sul fronte della pubblicità ingannevole, della concorrenza sleale, della sicurezza sul lavoro e dello sfruttamento dei lavoratori». Ma negli scorsi mesi c’è stato il commissariamento di Alviero Martini e anche il caso di “Sabrina”, nome d’arte di Yi Chen, donna a cui facevano capo almeno cinque centri manifatturieri del centro Italia che collaboravano per brand come come Marella Srl, Dixie Srl, Novantanove Srl, Betty Blue Spa di Elisabetta Franchi, Tenax.it Srl, Simi Srl, B&G Srl, P&C Srl e Imperial. Mentre risale al 2019 l’inchiesta de Il Sole 24 Ore che, seguendo un blitz della Guardia di Finanza in Toscana, aveva scoperto molte manifatture illegali di cui si servivano numerosi grandi brand – nessuno dei quali era però coinvolto in quanto quelle operazioni dato che erano tutte in appalto.
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Il meccanismo dell’appalto segue il principio evangelico del: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra». Ossia un brand di moda che fa capo a una certa azienda produce tramite una seconda azienda che a sua volta appalta il lavoro di produzione a un terza azienda esterna e via dicendo – così che chi è a capo della prima azienda possa sempre dichiarare di non essere a conoscenza che l’appalto/subappalto in questione si era svolto secondo modalità irregolari. Ma è chiaro che il problema è nel metodo: al di là dello sfruttamento dei lavoratori, che secondo le autorità i brand non sono nemmeno in grado di arginare, è il concetto del risparmiare esternalizzando il problema dato che in un mondo ideale ciascun brand dovrebbe avere fabbriche proprie senza esternalizzare nulla - è precisamente la presenza di un ricco tessuto di fabbriche altamente specializzate ad avere creato tanto l'idea di Made in Italy che la moda italiana come la conosciamo. Quando nel 2019 le Fiamme Gialle scoprirono magazzini pieni di borse di lusso destinate alle migliori boutique del mondo, dal punto di vista legale, i brand non avevano alcuna colpa: trovando aziende disposte a trasgredire al loro posto, avevano a disposizione altrettanti “uomini di paglia” che diventassero i falsi bersagli per la legge – la loro unica colpa era essersi fidati senza approfondire troppo. A tutti gli effetti sono dalla parte del giusto - ma è indubbio che riconoscano il vantaggio economico del risparmiare sulla produzione senza farsi eccessive domande. E non solo i brand conservano la facoltà di annullare un contratto se e quando si scopre che l’azienda in questione commette irregolarità ma chi gestisce le fabbriche può riaprire i battenti dopo aver pagato una multa che, nel 2019, secondo Il Sole, si aggirava intorno ai duemila euro.
Chi non ha lavorato nel campo tessile non può capire, tutte le case di moda fanno produzione all'estero, o sfruttano lavoratori sottopagati in Italia, soprattutto al sud Italia, le aziende di confezioni italiane stanno chiudendo e il made in Italy viene prodotto da cinesi#jeru
— minni (@MMmminni) November 22, 2022
Insomma, ci si può iniziare a dimenticare l’immagine dell’attempato artigiano italiano che produce a mano e con pazienza le borse più esclusive del mondo: quell’artigiano è, con molte probabilità, un clandestino privo di documenti, che non parla nemmeno la lingua e ovviamente inesistente agli occhi del fisco. La borsa, però, sia in teoria che in pratica, è prodotta in Italia – e tanto basta per metterla in vetrina con un’etichetta a quattro o cinque cifre. In molti dei casi sopra elencati, il sentiero di prove che conduce dai lavoratori sfruttati ai vertici dell’azienda scompare a metà: i manager non sanno mai nulla, fanno spallucce e cancellano contratti – ancora meglio se l’azienda che ha dato l’appalto non è l’azienda del brand originale ma un suo “braccio” staccabile in caso di emergenza. Poco male anche per gli sfruttatori: come si legge nell’inchiesta del 2019 de Il Sole «spesso, però, i titolari pagano solo un anticipo sufficiente alla ripresa dell'attività. Una volta completato il ciclo di lavorazione molte imprese vengono liquidate senza versare il resto e, altrettanto spesso, senza pagare le tasse. Molti titolari, in questa catena senza fine di frodi e raggiri, diventano operai in un nuove società registrate, i cui titolari diventano quelli che magari, prima, erano i loro operai». Ma lasciamo certi discorsi agli avvocati – dopo tutto se la legge dice che un certo prodotto rispetta quei criteri, dobbiamo far fede alla legge. Il vero problema per i brand, la più immediata minaccia, è la fiducia del pubblico.
Quando parliamo di fiducia non parliamo di qualcosa di razionale, ma di un sentimento. Ora la legge può dire quello che vuole, ma chiunque si informi sulle notizie della moda avrà iniziato a notare uno schema sempre più ricorrente in una serie di inchieste e di scandali che ruotano tutte intorno al vero costo del lusso e che hanno sempre a che fare con i set-up legali che i grandi brand adoperano per risparmiare sulle materie prime o sulla produzione. La vera ricchezza della moda non è fatta in negozio, ma facendo ogni economia possibile nella supply chain, dove una borsa da oltre duemila euro viene comprata dal brand per meno di cinquanta da “imprenditori” che sfruttano la manodopera in maniera quasi schiavile. Lo stesso brand che magari vende come occhiali di design dei pezzi di acetato qualunque, che produce gioielli in ottone o corda intrecciata venduti a migliaia di euro o che imbottiglia in belle confezioni la stessa crema per il viso che si trova sugli scaffali del supermercato e la vende come rimedio di giovinezza. E questi periodici “scandali” che spuntano di tanto in tanto, rivelando meccanismi in realtà noti a chi ne ha visto già uno, fanno sospettare che un sistema esista, una sorta di silenziosa prassi collettiva per la produzione di grandi aziende che rende gli sweatshop del lusso poco o nulla migliori degli sweatshop dove Shein o i giganti del fast fashion producono i loro stracci di poliestere – tanto più che la moda ha un chiarissimo problema di sovrapproduzione, sprechi e prodotti in eccesso che vanno smaltiti attraverso la “porta secondaria” delle svendite. In pratica, tutto questo sforzo, tutto questo sfruttamento sono quasi futili in fin dei conti: se i dati fossero veritieri, le vendite non dopate e tutti i passaggi della catena si svolgessero secondo le regole, scopriremmo che questo gran mondo è in realtà molto più piccolo di quanto non sembri.