Come si diventa curatori di moda
Intervista a Valerie Steele
26 Marzo 2024
Nel documentario Catwalk (1994), che insegue la modella Christy Turlington per la durata di un Fashion Month, quando ad André Leon Talley viene domandato se la moda è arte il giornalista risponde, secco: «Assolutamente no. La moda è duro lavoro, non è apparenza e basta». Che gli abiti possano essere considerati un’opera meritevole di essere appesa in un museo per essere ammirata è un argomento che ha polarizzato gli osservatori della storia dell’arte per decenni. Oggi, però, l’interità del pubblico riconosce nelle creazioni più maestose conservate nei musei del costume e della moda o anche negli archivi dei collezionisti vero valore artistico, tanto da gremire spazi come il V&A di Londra, che detiene la più grande collezione di moda al mondo, e il MET di New York con un vero e proprio senso di «fame per la moda». Così la chiama Valerie Steele, pioniera dello studio della storia del costume, curatrice e direttrice del Museo del Fashion Institute of Technology che nel corso di una lunga carriera ha saputo osservare e influenzare i cambiamenti che ha subito il ruolo del fashion curator. Se entrare a lavorare nel settore può sembrare già di per sé una sfida complicata, per chi non ha le giuste connessioni o supporti, diventare un curatore di moda è una sfida ancora più ardua, aggravata sia dal senso di esclusività che avviluppa il mondo dell’arte, sia da quello a cui cerca di rimanere aggrappato la fashion industry. Alla domanda “Come si diventa curatori di moda?” Valerie Steele risponde, per riassumere, che tocca rimboccarsi le maniche.
Abbiamo incontrato la storica a Trieste, in occasione della premiazione dell’ITS Contest. Un concorso nato per supportare le nuove promesse della moda, il progetto di ITS Arcademy sostiene i creativi emergenti da più di vent’anni, esponendo i lavori in gara in una mostra permanente. Come spiega Steele, includere il costume contemporaneo nella museologia permette di osservare l’abito sotto un nuovo punto di vista. «Gli spazi espositivi offrono un modo molto particolare di guardare la moda», aggiunge. «Di solito guardiamo gli abiti con persone sedute di fronte a noi, sul nostro piccolo schermo, o in un negozio. In un museo, abbiamo la possibilità di guardarle attraverso un obiettivo più estetico e come parte della società». Ma l’importanza della curatela di moda non si ferma all’antropologia: per Steele il lavoro museale ha il compito di educare così come di «ispirare designer e persone all’immaginazione», l’obiettivo principale che dovrebbe inseguire chi sogna di firmare un’esposizione. «Tutti possono identificarsi con la moda», aggiunge Steele. «Aiuta la industry, ma aiuta anche la cultura in generale ad apprezzare come la moda sia un'arte creativa».
Sebbene, rispetto a Londra o a New York, l’Italia sembri essere indietro nel campo della curatela di moda, è semplicemente frammentata. Essendo stata unificata molto tardi, osserva Steele, la distribuzione dei fulcri creativi, e conseguentemente degli spazi espositivi, risulta molto più sparsa tra varie città come Milano, Firenze, Roma e molte altre. Non mancano i musei di moda in Italia, come Museo Ferragamo, il Museo dell’Archivio Gucci o Armani Silos, ma si riconosce una certa tendenza ad isolare la storia dei brand quando esiste l’opportunità di raccontarle accostate tra loro. Come racconta Steele, uno ha influenzato l’altro nel corso dell’evoluzione del costume. «Penso che le mostre di designer siano belle e abbiano anche uno scopo importante», spiega Steele. «Ma credo che sia bello avere a disposizione luoghi in cui si possono fare mostre comparative, in cui si guarda a un tema, non solo a un designer». È qui che entra in campo il mestiere del curatore, che deve essere in grado di esplorare un tema e di esporlo in maniera inquisitoria, a rappresentare una narrazione che susciti delle domande oltre alla meraviglia. Facendo l’esempio di Judith Clark, una curatrice in grado di trasformare pochi metri cubi in una narrazione carica di pensieri critici, Steele racconta che per creare una grande mostra occorre sperimentare con ciò che si ha. «Trovo che alcune delle cose più creative avvengano quando si prendono due campi diversi e li si mette insieme», ci dice Steele. «Le migliori mostre di moda hanno una buona idea». Tra i consigli che Valerie Steele impartirebbe a un giovane creativo che vuole diventare fashion curator ci sono regole semplici, che però richiedono disciplina e applicazione. «Le persone devono essere molto, molto autonome, perché questo è un campo estremamente competitivo», afferma la curatrice, rammaricata dalla problematicità delle internship non retribuite che purtroppo spesso devono affrontare i “nuovi arrivati” prima di venire apprezzati da un possibile datore di lavoro. «Il curatore è solo un volto», aggiunge. «Ci sono gli educatori, i conservatori, gli addetti alla registrazione, i creatori di mostre, gli addetti ai media, è come fare un film, bisogna cercare di capire non solo cosa ti piace fare, ma anche in cosa sei bravo e cosa ti fa emergere dal resto».
L’ultimo tema che affrontiamo insieme a Valerie Steele è il valore della storia della moda in relazione alla cultura della cancel culture, a pochi giorni dall’uscita del documentario su John Galliano, High & Low, Anche in questo caso, studiare il passato torna utile. «In un mondo in cui le cose tendono ad essere molto polarizzate, penso che sia necessario capire il tipo di pressioni a cui erano sottoposte le persone. Il business era feroce, ricordo di aver sentito la registrazione di Galliano: era assolutamente orribile e spregevole, ma era anche chiaro, sotto molti aspetti, che si trattava di una persona molto, molto malata». Nella visione completamente comprensiva e attenta di Steele, l’arte si può separare dall’artista, perché così come ascoltiamo ancora Wagner o appreziamo i Picasso, possiamo ancora riconoscere l’incanto e la ricchezza delle creazioni che Galliano realizzava in quegli anni di terribile perdizione. Era proprio una collezione dell’ex direttore creativo di Dior quella a cui si riferiva André Leon Talley nel documentario dedicato a Turlington, la SS94 di Galliano che raccontava Anna Karenina di Tolstoy con estrema poesia e drammaticità. «Una definizione: il master technician del ventunesimo secolo», aveva annunciato l’allora direttore artistico di Vogue, a presagire il riconoscimento che avrebbe ricevuto il creativo trent’anni dopo. Perché la moda è arte, specialmente quando si colora di sentimenti forti come la necessità di riscatto.