Il futuro della comunicazione nel lusso è a telefono spento
Il ritorno dell'intimità, dello show come performance e di una moda che respira
14 Marzo 2024
Durante la Paris Fashion Week FW24 Women’s, le gemelle Olsen sono state aspramente criticate per aver infranto una legge non scritta della Fashion Industry. Per questa stagione gli abiti sartoriali e costosissimi epitome di quiet luxury del marchio The Row sono stati celati alla vista del pubblico social quando le founder hanno deciso che la visione dei capi sarebbe stata ad esclusivo appannaggio degli invitati “fisici” della sfilata. Poche decine di eletti tra influencer, stampa e close friend del brand hanno assistito all’evento, in cui il divieto è stato palesato sin dal principio: «Vi chiediamo gentilmente di astenervi dallo scattare o condividere qualsiasi contenuto durante la vostra esperienza». Al posto dei telefoni, agli ospiti sono stati dati taccuini giapponesi e una penna per prendere appunti e la scelta è stata, come da aspettarsi, piuttosto divisiva. Eppure la sfilata a porte (o telecamere) chiuse delle Olsen, oltre a suscitare un boom di ricerche tra gli appassionati che hanno dovuto aspettare Vogue Runway per vedere gli abiti, ha anche posto nuovi spunti di riflessione sulla natura della relazione tra social media e lusso e sul futuro della fruizione delle sfilate stesse. In un’epoca in cui la parola community sembra sempre più incisiva nelle strategie finanziarie dei marchi e in cui la redditività di un brand non è più intrinsecamente collegata al proprio seguito social (ricordiamo la chiusura del profilo Instagram di Bottega Veneta durante l’era di Daniel Lee), come si misura il successo? Come si fidelizza l’1% di clientela alto spendente in un mare di concorrenza e come si tiene a bada invece il restante 99, che sicuramente non ha le finanze per comprare The Row, ma che con la mera ammirazione ne può alimentare esponenzialmente l’allure aspirazionale?
Nonostante il caso di The Row sia sicuramente il più estremo, l'influenza crescente della tecnologia, intesa come arma a doppio taglio tra connettività e isolamento nella società contemporanea, è stata un tema di riflessione per tutti i marchi. Miu Miu ha portato in passerella la sua top client Qin Huilan, una dottoressa di Shangai di settant’anni dai capelli argentati, nonché cliente affezionata della maison, proprio per celebrare un’esigenza di intimità che superasse i pixel dello schermo e coinvolgesse davvero il consumatore finale. È proprio la ricerca di intimità il tratto d'unione fra queste iniziative - un'intimità che negli ultimi anni si è andata affidando agli after party, intesi come catartico spazio di aggregazione in cui il confine tra press, designer, modelle e influencer si azzera nei confini del dancefloor. Lo dimostra il party che ha seguito la sfilata di debutto di Sabato De Sarno da Gucci, in cui il privé era stato soppresso in favore di una grande sala senza barriere, e lo conferma l'evento successivo al secondo défilé di Stefano Gallici alla direzione creativa di Ann Demeulemeester, in cui la musica elettronica fluiva coerentemente attorno agli outfit indie sleaze dei partecipanti. L’afterparty ha ricoperto negli anni un valore quasi sacrale, confermato dalla credenza diffusa tra gli addetti al settore secondo cui è la vibe che si respira duranta la festa a decretare il successo o il fallimento del lavoro di un designer durante un’intera stagione. Testimonianza del fatto che sì, è l’ennesimo evento in cui nessun invitato può andarsene contento senza aver prima postato una story Instagram in full look del brand, ma si tratta anche un momento in cui la moda respira, si muove. Chi la vive si tocca, balla e suda in un’imperfezione molto umana che tuttavia non siamo più abituati a vedere o che lo schermo non è solito mostrare sotto i patinati riflettori della moda.
Per capire la deriva che stanno prendendo i social nella narrativa della moda di lusso della società tardo capitalista, bisogna fare un passo indietro: guardare il consumatore da lontano, tentando di cogliere un quadro delle sue abitudini d’acquisto in divenire. Nel campo dei social, come forse era facile attendersi, il nuovo report di Karla Otto e CTZAR intitolato Marketing in a World of Paradox testimonia che l'ascesa di TikTok ha rivoluzionato la cultura degli influencer: secondo un sondaggio citato dallo studio, il 76% degli utenti si dice annoiato dalle celebrità globali (e come dargli torto) mentre il 68% afferma di essere infastidito dalla marea di contenuti sponsorizzati che nella sovraesposizione mediatica e pubblicitaria vanno perdendo in credibilità. Nonostante la sfiducia, degli oltre 950.000 utenti di Internet intervistati, è emerso che un terzo delle persone tra i 18 e i 30 anni riportava sintomi di 'dipendenza dallo smartphone' con sempre più sentimenti di isolamento e distacco dalla realtà. Le trovate social funzionano ancora, specie se sono abbastanza strambe da interrompere lo scrolling compulsivo - gli abiti in disfacimento di AVAVAV ad esempio, i bizzarri backstage di Alex Consani, le borse fatte d’aria di Coperni in collaborazione con la Nasa - ma specie durante i fashion show, l’attenzione degli utenti è sempre catalizzata dal bagliore delle celebrity in front row piuttosto che dai capi in sé. Per il lusso ritorna l’esigenza della sfilata come performance, momento di raccoglimento sacrale, evento elitario perché, in fondo, è solo l'elite che può permettersi una Margaux di The Row da 7000 dollari e non è di certo l’élite che guarderà le Olsen fare l’inchino a fine show da dietro uno schermo.