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Quando i brand "sopravvivono" ai propri founder

La più spinosa questione della moda: il nome sulla porta

Quando i brand sopravvivono ai propri founder La più spinosa questione della moda: il nome sulla porta
Nei giorni della Paris Fashion Week, i due momenti più virali dello show di Vivienne Westwood, adesso diretto dal vedovo della designer Andreas Kronthaler, sono stati il look di apertura di Sam Smith e soprattutto la performance del trio Son of Sissy che in effetti, tirata fuori dal contesto dello show, hanno prodotto l’effetto della più straniante bizzarria. Nella sezione commenti TikTok di Interview Magazine, che ha postato il video, la frase più ricorrente riguarda, per usare i termini più delicati possibili, il fatto che Vivienne Westwood disapproverebbe uno spettacolo di questo tenore. E il fatto stesso che il nome esatto del brand sia ad oggi “Andreas Kronthaler for Vivienne Westwood” ha portato diversi insider a domandarsi se non sia più semplice sul piano della comprensione dare al brand il nome del suo attuale designer (per altro assai rispettato) senza per forza tirare in ballo Westwood. I motivi dietro la scelta sono ovviamente commerciali e di riconoscibilità – ma la logica di chi obietta regge. «Non voglio farne una parodia», disse Kronthaler nel 2022 parlando dell’estetica del brand, «rielaborandola o rifacendola. Non è nella mia natura guardare al passato». Parole significative, dopo tutto un successore deve fornire la propria interpretazione personale di un certo stile, ma che creano una notevole ambiguità su quale sia la vera legacy del brand: si parla di codici pre-esistenti che vengono ripensati o di codici nuovi? Nel primo caso il designer deve operare dentro un limite ristretto di opzioni e citazioni, il passato è il suo recinto; nel secondo caso bisogna capire se ha senso che i codici nuovi siano etichettati con un nome che di codici ha già i propri. 
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Ora, la questione tendenzialmente si risolve spesso da sola. Pensiamo a Balenciaga: famosamente il fondatore del brand non voleva associarsi a quei couturier-affaristi che facevano della propria firma una specie di scettro che poteva essere passato da un successore all’altro; non di meno, dopo una serie di traversie e un “sonno” durato fino al 1986, i diritti al nome di Balenciaga vennero acquistati da Jacques Bogart e iniziò una lunga stringa di direttori creativi (Goma, Thimister, Ghesquiére) che sarebbe poi culminata con Demna. Pur lavorando in un universo completamente diverso e in modo completamente diverso, Demna è riuscito non solo a rendere Balenciaga un brand di prima rilevanza, reintroducendo anche l’Haute Couture dopo mezzo secolo, ma anche a farsi portavoce, iniziatore e simbolo di uno stile del tutto nuovo. «Sono quasi 10 anni che martello questa estetica. Ed è fuori dal mio controllo», ha detto il designer a WWD dopo l’ultimo show di Parigi. «Perché ci sono persone che per strada che sembrano indossare Balenciaga, ma non lo stanno indossando. Ma il modo in cui indossano i loro abiti, il modo in cui li abbinano, le proporzioni, è lo stile Demna». Ora, pur con rispetto della storia, si deve ammettere che non c’è miglior riconoscimento per un designer che quello di poter rivendicare una certa estetica e in questo senso Demna ha fatto rivivere un brand che altrimenti sarebbe “vissuto” solo nella teca di un museo. E a questo si può aggiungere che una legacy non cancella l’altra – ma questo è un caso di successo, un successo straordinario nel senso che entrambi i raggiungimenti, di Cristòbal Balenciaga e di Demna, sono pilastri separati che reggono lo stesso tetto ma potrebbero benissimo reggersi da soli - fenomeno per nulla comune di questi tempi. Qui come in altri casi la storia viene scritta dai vincitori.
 


Più difficile fare questo ragionamento altrove: dopo tre stagioni, tutti gli immensi poteri di Peter Do, il cui brand personale è un cult assoluto, non sono stati sufficienti a fare di Helmut Lang un brand cool; nel far proseguire il lavoro di Alexander McQueen invece (il quale inizialmente voleva chiuderlo salvo poi ricredersi, almeno pubblicamente, poco prima della sua tragica scomparsa) le porte del brand sono rimaste aperte, innumerevoli sneaker bianche sono state vendute, ma la quintessenza di McQueen è andata perduta –  nello spettro della creatività, il designer scozzese, come Balenciaga, si trovava troppo vicino alla figura dell’artista per poter essere ridotto a una formula riproducibile. Altrove, con Ann Demeulemeester ad esempio, le diverse rielaborazioni dell’identità del brand non si sono mai negate a vicenda, pur se tra alti e bassi, e il lavoro della fondatrice e quello successivo di Meunier e Gallici è una specie di grande lavoro in corso. Persino la sfortunatissima direzione di Saint-Sernin ha regalato al pubblico quel reggiseno-piuma che rimane assolutamente memorabile. Leggendo i pensieri dei più autorevoli critici sulle ultime sfilate una formula ricorrente è quella per cui una certa collezione è più bella quando il suo direttore creativo mette di lato i codici del brand ed esplora la propria visione – ma a questo punto ci si domanda: perché quel designer non esplora la sua visione nel suo brand? La questione è banale: i soldi. Lo scorso dicembre, in un’intervista, Giancarlo Giammetti ha detto che se lui e Valentino dovessero aprire il brand oggi, non sarebbero arrivati dove sono arrivati: «Ce ne siamo andati perché le riunioni riguardavano solo i soldi, non il design. Le previsioni di vendita hanno deciso cosa è stato creato. I conglomerati hanno fatto funzionare ogni etichetta allo stesso modello. Non avremmo potuto lanciare oggi. Se lo facessimo, faremmo slow fashion». Parole che riecheggiano quelle di Alessandra Frank che all’indomani dello show di McQueen ha scritto nelle sue IG Stories: «Non è una sorpresa che certe scarpe siano e saranno sempre impossibili da riempire. E dunque se un conglomerato non chiude un brand […] l’unica altra scelta è fare di un altro designer il suo direttore creativo […]. Il loro ruolo principale sarà quello di continuare a far guadagnare quanto più possibile al conglomerato».
 


Ma accusare il capitalismo di certe dissonanze e ambiguità, arrivati al punto in cui l’industria è arrivata, non ha alcun senso. Piuttosto un modello interpretativo da adottare è quello dell’identità: ci sono brand che ne hanno una propria e altri che hanno quella del proprio designer. Di solito, quando il brand ha un’identità propria è perché rappresenta un approccio o un metodo, sia nel caso in cui il brand sia nato come espressione di savoir-faire puro (pensiamo a Louis Vuitton, Bottega Veneta, Gucci o Hermès) sia nel caso in cui il founder abbia impostato un “metodo” in cui, come in una lente, un nuovo designer riesca a focalizzare la propria visione – e questo è il caso di Issey Miyake, Phoebe Philo o Martin Margiela, che per altro sono imitati da altri designer nei propri brand. Nella situazione in cui l’identità del brand corrisponda a quella del designer, come nel caso di McQueen ma anche quello di Helmut Lang o Azzedine Alaïa, manca un modello a cui affidarsi perché quel modello è un insieme di gusti personali, competenze e intuizioni, ossessioni e ispirazioni estetiche troppo legate a un vissuto umano irreplicabile per essere semplicemente imbottigliate. In questi casi la sfida è artistica: come nel caso di Balenciaga, una personalità e una visione forti vanno sostituiti con una personalità e una visione altrettanto forti a cui poi toccherà stabilire legami interni di coerenza col proprio lavoro. Ma, come ha detto Demna dopo il suo show (parafrasiamo) la creatività pura è il vero lusso di oggi in un’industria che, ironicamente, è incalzata da necessità impellenti praticamente ogni trimestre. Siamo certi che i CEO e i loro comitati possano permettersi il lusso di scegliere con calma un artista? O è meglio scegliere, più brevemente, un funzionario? Per citare Jim Jarmusch: «Fast, cheap and good: pick two. If it’s fast and cheap, it won’t be good. If it’s cheap and good, it won’t be fast. If it’s fast and good, it won’t be cheap».