Quando i brand "sopravvivono" ai propri founder
La più spinosa questione della moda: il nome sulla porta
08 Marzo 2024
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Più difficile fare questo ragionamento altrove: dopo tre stagioni, tutti gli immensi poteri di Peter Do, il cui brand personale è un cult assoluto, non sono stati sufficienti a fare di Helmut Lang un brand cool; nel far proseguire il lavoro di Alexander McQueen invece (il quale inizialmente voleva chiuderlo salvo poi ricredersi, almeno pubblicamente, poco prima della sua tragica scomparsa) le porte del brand sono rimaste aperte, innumerevoli sneaker bianche sono state vendute, ma la quintessenza di McQueen è andata perduta – nello spettro della creatività, il designer scozzese, come Balenciaga, si trovava troppo vicino alla figura dell’artista per poter essere ridotto a una formula riproducibile. Altrove, con Ann Demeulemeester ad esempio, le diverse rielaborazioni dell’identità del brand non si sono mai negate a vicenda, pur se tra alti e bassi, e il lavoro della fondatrice e quello successivo di Meunier e Gallici è una specie di grande lavoro in corso. Persino la sfortunatissima direzione di Saint-Sernin ha regalato al pubblico quel reggiseno-piuma che rimane assolutamente memorabile. Leggendo i pensieri dei più autorevoli critici sulle ultime sfilate una formula ricorrente è quella per cui una certa collezione è più bella quando il suo direttore creativo mette di lato i codici del brand ed esplora la propria visione – ma a questo punto ci si domanda: perché quel designer non esplora la sua visione nel suo brand? La questione è banale: i soldi. Lo scorso dicembre, in un’intervista, Giancarlo Giammetti ha detto che se lui e Valentino dovessero aprire il brand oggi, non sarebbero arrivati dove sono arrivati: «Ce ne siamo andati perché le riunioni riguardavano solo i soldi, non il design. Le previsioni di vendita hanno deciso cosa è stato creato. I conglomerati hanno fatto funzionare ogni etichetta allo stesso modello. Non avremmo potuto lanciare oggi. Se lo facessimo, faremmo slow fashion». Parole che riecheggiano quelle di Alessandra Frank che all’indomani dello show di McQueen ha scritto nelle sue IG Stories: «Non è una sorpresa che certe scarpe siano e saranno sempre impossibili da riempire. E dunque se un conglomerato non chiude un brand […] l’unica altra scelta è fare di un altro designer il suo direttore creativo […]. Il loro ruolo principale sarà quello di continuare a far guadagnare quanto più possibile al conglomerato».
Alexander McQueen, the Sean McGirr version. Thoughts? pic.twitter.com/fwJ0rjnLKF
— Vanessa Friedman (@VVFriedman) March 2, 2024
Ma accusare il capitalismo di certe dissonanze e ambiguità, arrivati al punto in cui l’industria è arrivata, non ha alcun senso. Piuttosto un modello interpretativo da adottare è quello dell’identità: ci sono brand che ne hanno una propria e altri che hanno quella del proprio designer. Di solito, quando il brand ha un’identità propria è perché rappresenta un approccio o un metodo, sia nel caso in cui il brand sia nato come espressione di savoir-faire puro (pensiamo a Louis Vuitton, Bottega Veneta, Gucci o Hermès) sia nel caso in cui il founder abbia impostato un “metodo” in cui, come in una lente, un nuovo designer riesca a focalizzare la propria visione – e questo è il caso di Issey Miyake, Phoebe Philo o Martin Margiela, che per altro sono imitati da altri designer nei propri brand. Nella situazione in cui l’identità del brand corrisponda a quella del designer, come nel caso di McQueen ma anche quello di Helmut Lang o Azzedine Alaïa, manca un modello a cui affidarsi perché quel modello è un insieme di gusti personali, competenze e intuizioni, ossessioni e ispirazioni estetiche troppo legate a un vissuto umano irreplicabile per essere semplicemente imbottigliate. In questi casi la sfida è artistica: come nel caso di Balenciaga, una personalità e una visione forti vanno sostituiti con una personalità e una visione altrettanto forti a cui poi toccherà stabilire legami interni di coerenza col proprio lavoro. Ma, come ha detto Demna dopo il suo show (parafrasiamo) la creatività pura è il vero lusso di oggi in un’industria che, ironicamente, è incalzata da necessità impellenti praticamente ogni trimestre. Siamo certi che i CEO e i loro comitati possano permettersi il lusso di scegliere con calma un artista? O è meglio scegliere, più brevemente, un funzionario? Per citare Jim Jarmusch: «Fast, cheap and good: pick two. If it’s fast and cheap, it won’t be good. If it’s cheap and good, it won’t be fast. If it’s fast and good, it won’t be cheap».