La voyuristica dissipazione della FW24 di Diesel
Quando il distressing diventa virtuosismo
21 Febbraio 2024
Alberto Castellano
Cosa significa “decostruire”? Il termine è uno dei più usati nel dialetto del marketing e dei PR e viene usato per descrivere un po’ qualunque cosa – ma non è un termine vago per Glenn Martens, designer abituato a prendere l’architettura di ciò che è già noto e intuirne gli intimi funzionamenti, per poi sovvertirli. E la decostruzione è stata un punto forte del concept dell’ultimo show di Diesel – show che dovremmo chiamare forse “esperimento” dato che per l’occasione non solo l’intero processo di produzione, set-up della location, styling e casting sono stati visibili 24 ore su 24 sul sito del brand per tre interi giorni, ma mille osservatori esterni da tutto il mondo stavano osservando lo show e i suoi ospiti in una sorta di epica chiamata su Zoom, con i loro volti che scorrevano tra gli schermi alti come i muri che punteggiavano la passerella. Lo stesso pattern di volti intenti in una videochiamata riappariva anche su diversi capi della collezione.
Ragazze, ragazzi, almeno un paio di cani, qualcuno che indossava una maschera da alieno: il concetto di osservare ed essere osservati, alla base dello show, intendeva precisamente decostruire le classiche gerarchie dello sguardo trasformando gli osservatori da casa in una sorta di grand wallpaper interattivo e gli ospiti dello show negli oggetti osservati. L’idea era quella di fare vedere, per così dire, il teatro dalla parte delle quinte o il vestito dalla parte delle cuciture – che è anche parte della collezione che Martens ha portato in scena. Nelle show notes, infatti, si legge che l’intento della collezione era mostrare «i nostri lati nascosti che si aprono, facendo emergere la parte interiore». A rendere la situazione più straniante, facendo degli elementi solitamente nascosti il perno dello spettacolo, una voce robotica scandiva l’ordine di uscita dei modelli in passerella nel più completo silenzio, tanto da far pensare a un guasto all’audio, rendendo ancora più evidente l’inversione di prospettiva che il designer belga suggeriva al suo pubblico di adottare.
Un tipo di inversione che è stato applicato, seguendo la stessa linea concettuale, sugli abiti: abiti e camicie dal tessuto dévoré che andava assottigliandosi fino a diventare trasparente, rivelando la propria trama insieme alla biancheria e ai corpi a essa sottostanti; lunghi abiti a fiori dall’effetto consumato da cui emergevano stampe animalier, denim che svelavano le gambe con inserti trasparenti e impalpabili; stoffe sovrapposte e rese aliene da trattamenti che ne simulavano il logorio, parka sintetici intersecati con maglioni, pellicce leopardate il cui orlo si trasformava in stoffe leggerissime; delicati abiti con maniche a sbuffo i cui tessuti erano bruciati rivelando altri tessuti al di sotto con colori a contrasto e, al contrario, pezzi dalla consistenza liscia che invece avevano la consistenza villosa del mohair. Ma anche blazer i cui diversi pannelli erano un’alternanza di denim e pelle, giacche dal colletto resecato a orlo vivo, tessuti organici ricoperti da una mano di finissaggio sintetico, abiti molto bon ton che diventavano improvvisamente provocatori grazie alla rivelazione della loro trama e, a chiusura dello show, una serie di monumentali look di pelliccia che prendevano gli archetipi del vestiario quotidiano e ne facevano qualcosa di primordiale, tribalistico. Il virtuosismo di Martens ha creato l’impressione generale di superfici scrostate che ne rivelavano altre – la chiave dell’estetica di questa collezione era proprio la dissipazione, l’identificazione del dinamismo nello stato intermedio di una trasformazione.