Il senso del post-lusso secondo Stefano Pilati
La teoria dell’indipendenza affettiva di Random Identities
15 Febbraio 2024
Se Stefano Pilati avesse fondato il suo brand nel 2023 o nel 2024, tenendo tutti col fiato sospeso fino all’ultimo secondo prima dell’invio della press release definitiva, molto probabilmente avrebbe ottenuto lo stesso successo mediatico di Phoebe Philo. Non soltanto perché il designer italiano è diventato il modello più desiderato dalla scena underground di Berlino, guest designer di Fendi o arruolato in passerella da Pharrell Williams in persona, ma per via del suo stesso manifesto creativo: brutalmente autentico fino al midollo. Pilati non è un designer che ha bisogno di lunghe presentazioni, né di postille alla sua carriera o alle sue direzioni creative: vanta un cv con esperienze in Cerruti, Armani, Prada e Miu Miu, ha risollevato le vendite di Saint Laurent dal 2004 al 2012 e ha il ricoperto il ruolo di direttore creativo di Zegna e Agnona. Per lui la moda «è sotto le tue dita quando tocchi il tessuto. È nei tuoi occhi quando prendi in mano un capo che nessun altro ha preso, cose che non sapevi esistessero o che non avresti mai indossato, e poi lo indossi e ti cambiano la vita. È la tua intuizione», come raccontava in un’intervista rilasciata al The Talks qualche anno fa.
Random Identities nasce nel 2017 su Instagram, lanciato sulle storie della piattaforma di Meta per testare il sentiment di una community legata all’immaginario estetico di Stefano Pilati con la condivisione di 17 look a mo’ di still life. Su IG, l'account ha 15 post, 45 mila follower e 49 account seguiti; il sito web, tra impeccabili giacche sartoriali e styling genderless che avrebbe facilmente catturato l’attenzione di David Bowie, include una sezione about sede del testamento identitario del brand: «Inserisci l’identità. La libertà del cliente di personalizzare il logo è un modo per dimostrare che rispettiamo l’unicità dei nostri clienti. L’etichetta nasce da una tradizionale forma di coinvolgimento con il consumatore finale dove il senso di esclusività tipico della Couture e del su misura viene sostituito dall’esperienza tangibile di chi prende possesso dell’acquisto».
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— elena (@givemethecoins) August 23, 2023
La prima release di Random Identities è stata un’opera di riscrittura dell’atto vestimentario - centimetrimetri e centimetri di tessuti neri, made in Italy, tagliati secondo il punto di vista di un designer a cui non interessa creare un prodotto intriso di ridondanze. «Random rappresenta la casualità dell’esistenza, e Identities è la risposta a quella casualità. I due termini definiscono lo spazio in cui le persone possono identificarsi non con i trend, ma con la personalità, la funzione, la qualità e il design». Il progetto di Stefano Pilati, volendo farne una sorta di esegesi a posteriori, s’inserisce all’interno di una corrente di pensiero che elude il concetto di stagionalità, di occasionalità e delle tradizionali modalità di presentazione. Random Identities non riproduce soltanto la trasposizione visiva di un Berghain chic reclamato a gran voce da una community di clubbers berlinesi particolarmente attiva su Instagram, ma è un cloud in tessuto di risposte ai problemi del mondo della moda nella visione del suo direttore creativo. «Non esiste più l’esclusività! L'esclusività si basa tutta su: Oh, quanto l’hai pagato?» ha detto contrariato a GQ durante la 97esima edizione del Pitti Uomo. Random Identities esiste in un mondo post-lusso «dove puoi acquistare un blazer doppiopetto made in Italy per $ 430, o un paio di pantaloni dal taglio accattivante per poco più di $ 200, prezzi realizzati grazie alle sue profonde connessioni nel mondo della produzione e dei fornitori» ha spiegato Samuel Hine al magazine. Pilati, oltre a rigettare l’idea di binarismo di genere come metodo di concezione e produzione dell’abito, si impegna anche a creare solo un capo prototipo prima di mandarlo definitivamente in produzione. I suoi prodotti sono disponibili su SSENSE e su Dover Street Market, la catena di concept store creata da Comme des Garçons.
Random identities by Stefano Pilati.
— Ailèen (@linaopayets) March 7, 2019
(Images via i-D Italy) pic.twitter.com/NXMj8r5399
Non tutti i blazer sono uguali, né tantomeno chi ne progetta i dettagli. Torniamo agli abiti di Random Identities e ritorniamo online, sul sito del brand: una sorta di grado zero di storytelling, ridotto all’osso anche nella descrizione dei prodotti, telegrafico persino nel tone of voice. Chi finisce sulla pagina in questione, probabilmente, ricerca dei capi funzionali, modulabili e di ottima fattura, ma soprattutto non ha bisogno di romanzi cuciti sugli abiti, rifacendosi in primis al lavoro del direttore creativo. Diciotto look, 324 potenziali combinazioni. Il primo si compone di un cappotto monopetto nero 3/4, in panno di lana, provvisto di chiusura sul fondo dove sono disposti 4 bottoni lungo i lati e una camicia bianca in popeline, con logo ricamato sul collo, che può essere usata anche come vestito. L’ultimo, invece, si avvale di tre pezzi: una felpa girocollo raglan con zip sul retro abbinata ad una gonna in gabardine con pieghe e lo stivale workwear in pelle di vitello con tacco di 9 cm. In mezzo: blazer con coulisse, cappotti maculati e a uovo o jumpsuit con scollo a V riportati su corpi maschili che potrebbero prestarsi senza alcuna opposizione alla controparte femminile.
«La mia prospettiva è che tu renda tuoi i vestiti nel momento in cui li indossi. Propongo qualcosa che viene da me, ma lo dono a qualcun altro e poi questo qualcun altro lo fa suo. Pertanto, in modo casuale, diventa un’identità che di fatto interagisce con l’intera etica del brand» ha spiegato Pilati. Piuttosto che concentrarsi sulla decostruzione degli abiti o sul renderli sovversivi, il lavoro di Pilati si colloca in un’area di intersezione tra il design e la pragmatica che gioca sulle infinite possibilità di combinazioni degli indumenti. «Sto imparando a essere indipendente. Ma la cosa difficile è che, da quando è stato lanciato Random Identities, non ho mai ricevuto critiche». L’output di quello che ormai non è più classificabile come la versione beta di un brand partorito su Instagram, secondo quanto dichiarato dallo stesso Pilati in una breve conversazione telefonica di cui resta traccia sul New York Times, sta proprio «nell'oltre». Sul feed Instagram del brand, per concludere, si può prendere visione dell’ultima collezione del brand, la FW24, provvista soltanto di credits e rimandi alla review su Vogue Runway — la strada di chi crede che «lo chic non può essere venduto, ma sicuramente suggerito».