Lo spettrale cabaret di John Galliano per Margiela
Finalmente un po’ di fantasia
26 Gennaio 2024
Viviamo in tempi aridi, aridissimi, quasi desertici. Come Leon Talley famosamente diceva: «C’è una carestia di bellezza» e a quella carestia, aggiungiamo noi, s’è di recente aggiunta una profonda siccità creativa che ci ha intrappolati collettivamente nel quotidiano e nel triviale dei “basics elevati”. Quest’anno, a Parigi così come a Milano, la moda è apparsa malata di realismo, assuefatta a riflettere sul presente e i suoi francamente noiosi problemi, a creare metafore per i social media, a vendere abiti che fossero soltanto se stessi. Peccato però che non ci sia nulla di più volgare del presente – e questo solo perché ci siamo dentro. In una moda per cui persino l’identità è una strategia commerciale (parafrasiamo quanto scritto da Carlo Mazzoni su Lampoon qualche giorno fa) si sentiva il bisogno di uno show realmente artistico, teatrale, capace di creare quel “sogno” che per molti è ancora il principale connotato di un’industria che, più di moda in sé e per sé, si occupa di abbigliamento di lusso. È per questo che l’ultimo show di John Galliano per Maison Margiela, uno show di Haute Couture o “Artisanal” come lo definisce la casa, ha letteralmente fatto tremare i pilastri della Terra per tutti i presenti e anche per gli assenti. Un critico cinematografico, anni, fa aveva descritto il film Exotica di Atom Egoyan come un «torbido acquario dove nuotano i fantasmi del desiderio umano» e un simile spettacolo è quello che ha chiuso, con una nota altissima (ma anche le musiche di Lucky Love e Hometown Glory di Adele, una canzone sulla povertà e bellezza dei sobborghi), la Couture Week di Parigi.
Messo in scena durante il primo plenilunio dell’anno sotto il Ponte Alexandre III, tra nebbie, luci a gas e un senso di decadente bassofondo, ispirato alle fosche muse d’inizio secolo di Kees van Dongen e alle fotografie crepuscolari di Brassaï, il trionfo di Margiela è stato superiore alla somma delle sue singole parti. Curiosamente, proprio per questo show, si può parlare di moda ma non di abbigliamento: le bambole burlesque, i reietti che camminano contratti dal freddo in cappotti chiusi e contorti, le Giunoni e le ninfe malate che sarebbero piaciute a Baudelaire non erano vestite che di corsetti e abiti Belle Epoque di organza completamente trasparente. Il make-up ricordava quello di inquietanti bambole di porcellana o di visi sudici d’olio, le acconciature scarmigliate e i cappellini esprimevano un romantico tormento, un gusto per il dramma e la bellezza insiti in ogni sfacelo. I corpi abbondanti, denudati, costretti dentro i corsetti esposti come se quegli abiti d’epoca fossero stati divorati dalle tarme fino a giungere alla loro anima più fine e impalpabile, la sensualità conturbante e funebre insieme e persino un surreale senso del grottesco che cancellava alcuni volti e tratteggiava i seni delle modelle con pennellate impresse nella stoffa delle calzamaglie dipinte – non c’era nulla di consolatorio e rassicurante in questa sfilata, nessuna affettazione di energia e dinamismo, nessun finto ottimismo. Era un racconto noir, un mistero di Parigi degno di Eugene Sue, un concept finalmente distaccato dall’ossessione di descrivere, commentare e reagire al presente.
Per tornare a Baudelaire, il più maledetto e parigino di tutti i poeti, e alla sua poesia Danse Macabre che avrebbe potuto fungere da perfetto corredo allo show, sarebbe facile abbinare l’eterno verso «Ô charme d’un néant follement attifé!» a questa parata di scheletri e di carni nude, a questo rimescolamento di morte e desiderio. È giusto e sacrosanto che la moda, come ambito di espressione della creatività umana, percorra tutte le sfumature della tavolozza emotiva, persino le più crude e perturbanti. Per troppo ci siamo abituati a concepire la moda come un lusso fine a se stesso e abbiamo messo al margine dell’arena le voci più “dannate” di designer come Jun Takahashi, che ha dovuto scusarsi per aver usato delle farfalle nel suo ultimo show; di Henri Alexander Levy e del suo mondo stupendamente corrotto; di Ziggy Chen e via dicendo. Sono anni che la moda, intesa come industria, essendo piegata alle necessità del commercio, deve parlare al pubblico in termini sempre positivi e solari, rinnegando un range di sentimenti umani tanto viscerali quanto oscuri che vendevano nel “ventennio della scorretezza” dominato sia da Galliano che da McQueen e in cui si poteva ancora estetizzare il male senza offendere la proba, irreprensibile sensibilità morale del pubblico - se avete nostalgia di una sfilata che ve lo dimostri, andate a riguardarvi la trasgressiva sfilata SS99 di Andrew Groves o le macabre presentazioni di Carol Christian Poell. La moda ama coltivare i sogni, vero, ma si è dimenticata di frequentare i suoi incubi.
La cosa migliore, però, è che il messaggio di Galliano, l’atmosfera che ha creato, la narrazione che ha stabilito così lontana dalla terribile, plastificata prosa degli storytelling aziendali sarebbe comprensibile anche da chi non possiede gli strumenti critici o i pregressi culturali e artistici necessari a decifrarne tutti gli elementi. C’era molta tecnica in gioco nello show: gli abiti di organza trasparenti e le calzamaglie già citate, ma anche le tessiture e consistenze della lana impresse illusionisticamente nella seta, i drappeggi di latex in cui era avvolta Gwendoline Christie. Oltre all’atmosfera che verrà decantata da mille altre voci, la Couture era tutta presente e nella sua forma più sottile, “magica” e sconvolgente. Molte penne sentimentali o idealiste spargeranno fiumi di inchiostro sulla nostalgia, sulla tragica commercialità della moda di oggi, sul desiderio che moda torni a essere la grande macchina dei sogni di un tempo. Non ascoltateli: il loro cuore li acceca e queste considerazioni distolgono da ciò che è davvero importante. Ovvero il fatto che Galliano ha dimostrato come, ancora oggi, lo spazio per esplorare le zone d’ombra e l’anima più nera dell’immaginazione umana esista – solo che nessuno vuole esplorarlo.