La profonda ambiguità dello show FW24 di Balenciaga
Zigzagando sulla linea tra il tributo e la parodia
04 Dicembre 2023
Demna è un designer, prima che ironico, ambiguo. Da un lato, le sue collezioni sono la delizia della critica, le sue citazioni sono praticamente sempre condivisibili, specialmente per quanto concerne lo stato dell’arte dell’industria, eppure nei suoi show non si capisce veramente mai come siano dosate parodia e apologia, invenzione geniale e banale espediente. Da un lato ci sono i bellissimi concetti che il designer ha esposto a Cathy Horyn sull’importanza perduta dell’artigianalità, sull’eccessiva fame di celebrità, sui fashion gimmick, sulla commercialità imperante e sull’importanza di trovare una vera voce creativa – dall’altro c’è una trafila sconfinata di capi logati identici da anni, uno stuolo di celebrità spesso portate anche in passerella, una lista di gimmick che potrebbe riempire un libro, una forte dipendenza sui prodotti commerciali e una riproposizione continua di silhouette e prodotti che annebbia il confine tra continuità e coerenza creative e una ripetitività estetica quasi ossessiva, che sfocia nella prevedibilità. Questo tipo di ambiguità è andato in scena con lo show FW24 di Balenciaga a Los Angeles di ieri: impossibile non vedere nella processione di figuranti una citazione alla celebrity culture di LA vista quasi dall’interno, all’inerente volgarità delle tute di velour e dei tanga a vista, a quel look vagamente Y2K delle star di Hollkywood quando vanno a fare la spesa in tuta. Non di meno: era davvero una specie di satira di quell’estetica prosaica, una sua celebrazione o un’elevazione?
Il fatto è che in Demna paiono conciliarsi tra loro spinte del tutto opposte: da un lato il designer “comunista” che critica con caustica ironia il capitalismo facendo vestire i milionari con asciugamani, tovaglie da tavola, ciabattine da albergo e tute adidas; dall’altro il direttore creativo di un brand di lusso che vende felpe e t-shirt logate, sneaker di tela distrutte, giacche di jeans e di acetato a prezzi astronomici. Nel mezzo c'è anche un designer che esalta la qualità delle costruzioni e l'architettura dei tagli creando jeans e parka di cotone termosaldato in una collezione di Haute Couture - la cui bravura, cioè, sembra volersi dissimulare in un quotidiano anonimato che nasconde volutamente la sua preziosità. Questo equilibrismo ideologico ha del sorprendente ed è forse questo il motivo per cui il brand conserva il proprio intellettualistico appeal anche nel pieno di una natura quasi dichiaratamente commerciale. Le due spinte, nel continuo dualismo del brand, si esaltano e annullano a vicenda. Tutto risolvibile nell'eternamente umoristico e disincantato dilemma del «ci è o ci fa?». Nel nesso tra banalità e arte si gioca tutta la scommessa della moda firmata da Demna - una moda che ha attirato schiere di devoti cultisti, che ha influenzato la maniera in cui percepiamo le sneaker, ha creato il gusto dell’oversize, ci ha fatto tornare a parlare di Haute Couture con un certo interesse, ha forse sovvertito (o cancellato?) la nozione tradizionale di lusso nel bene e nel male.
In questo senso, lo show FW24 di ieri è stato un capolavoro di ambiguità irrisolta. Era sicuramente Demna, sicuramente Balenciaga e sicuramente un nuovo capitolo di quella narrazione espansiva che il brand è andato costruendosi e che questa volta ha coinvolto un nuovo gruppo di “ricchi e sfaccendati” da sempre presente nella mentalità collettiva, mescolando rimandi alla tv trash, citazioni a un celebre shooting su Vogue di Steven Meisel, verismo, sberleffo. Il tema dello show era proprio lo scarto d'immagine tra i divi sullo schermo e nella vita, tra il red carpet e la corsa al supermercato (Erewhon in questo caso) con lo stop obbligatorio da Starbucks il cui bicchiere diventa una clutch. Le show notes descrivono la seconda sezione dello show come neo-grunge, cosa anche vera, ma in realtà più simile a quel patois estetico losangelino che confonde chi esce di casa a fare un giro, chi torna a casa dalla palestra e chi esce di nuovo per una prima cinematografica o un party sulle Hills. Il che dimostra come la lente distorcente di Demna possa essere applicata quasi a ogni issue del nostro mondo moderno dai rifugiati ucraini al parlamento europeo, passando per apocalissi climatiche, crisi della borsa e realtà aumentata. Dall’altro lato è impossibile non notare come gli show, il loro setting e il loro concept siano più memorabili delle loro collezioni: c’è lo show nel fango, quello della tempesta di neve, quello nel teatro, quello a Wall Street ma sarebbe più complesso dire da che collezione viene una certa giacca, una certa felpa o un certo pantalone. Ovunque c’è lo stesso sfoggio di cappotti oversize, bomber militari, capi cuciti illusionisticamente su altri capi, pantaloni cargo, tute striminzite, gigantesche sneaker, occhiali a mascherina.
Come si scriveva in un vecchio articolo, è davvero complesso distinguere la coerenza creativa dalla ripetitività: tra i designer più celebrati di oggi ci sono certamente creativi che si ripetono e tornano a martellare sulle proprie ossessioni – e questo senza contare l’ingerenza dei dipartimenti commerciali che vogliono che un certo pezzo best-seller ci sia sempre e comunque. Il metro con cui Demna andrebbe giudicato, forse lo stesso metro che lui implicitamente si è scelto, è quello dell’attualità: è attuale Balenciaga oggi? Riflette autenticamente un qualche inafferrabile zeitgeist che altri non saprebbero riassumere o sintetizzare meglio? Descrive qualcosa che è la fuori sovvertendo quegli abituali concetti di lusso e moda? La risposta, a fronte di collezioni che si somigliano molto fra loro, è sì. La principale qualità di Balenciaga è sicuramente quella di essere nel momento, di descriverlo con prontezza e farsene una specie di ritratto ideale e distopico insieme. In questo senso, le sottilissime sopracciglia di Cardi B (che ha chiuso lo show) ricordavano quelle di Karen Black nella babelica, folle e agghiacciante satira di Hollywood che fu Il Giorno della Locusta di John Schlesinger. Rimane però, al di là dei pezzi più concettuali, quel sentore di ambiguità: Demna nutre la cultura che giudica o giudica la cultura che nutre?