Il futuro delle collabo è nei brand di culto
Dopo lo streetwear, è il momento della nicchia
14 Novembre 2023
Un tempo, le collaborazioni che facevano più notizia si svolgevano nell’ambito streetwear e sportswear. Da quelle recenti di Gucci e Prada con adidas, alla storica Fendi x Fila, passando per le moltissime firmate da Vetements nella ormai famosa SS17, fino alle leggendarie sneaker di The Ten disegnate da Virgil Abloh e alle Dior x Air Jordan – il grande filone della collaborazione streetwear non si è mai esaurito e prosegue fino a oggi, anche se fa molta meno notizia rispetto a cinque anni fa. Se un tempo erano un evento, queste collaborazioni si sono moltiplicate al punto da rimanere desiderabili (pensate alle New Balance x Miu Miu o alla Margiela x Salomon) ma senza stupire più nessuno e, di fatto, l’effetto sorpresa da esse generato era in gran parte ciò che le rendeva un evento. Ora che quella della collaborazione è una prassi consolidata, una nuova normalità se vogliamo, i brand di moda sono andati in cerca di quella scintilla perduta, di quella sorpresa che nel frattempo s’è spenta. Il fenomeno delle collaborazione luxe-cult nasce così: l’ultima è sicuramente l’assolutamente inaspettata Emporio Armani x Our Legacy, a settembre abbiamo avuto Zegna x The Elder Statesman e la collezione di Fendi co-firmata da Stefano Pilati, ma ci sono anche quella di Ralph Lauren e BEAMS, quelle di Tommy Hilfiger e Maison Margiela con Pendleton, quella di Lacoste con Golf Wang e, infine, Jean Paul Gaultier e KNWLS. Un trend cavalcato anche dal fast fashion con Ader Error x Zara e, notizia dell'ultima ora, Desigual x Hed Mayner. Ma come funzionano queste collaborazioni?
Jockum Hallin, uno dei co-founder di Our Legacy che abbiamo anche intervistato l’anno scorso, ha raccontato la storia della collaborazione a GQ sottolineando l’estrema disponibilità del team di Armani: è stato il brand di lusso ad approcciarli, a chiedergli un pitch subito approvato, ad aprire gli archivi e le fabbriche, a lasciare ad Our Legacy di gestire la distribuzione sui propri canali, a concedere carta bianca sulla creatività della campagna. «Sentiamo che rispettano il nostro lavoro», ha detto Hallin, «Ci hanno subito detto: “No, dovreste essere voi a venderla. Dovreste portarla alla vostra audience” […] Il mondo di Armani non è probabilmente nelle conversazione dei nostri clienti. Non ogni giorno almeno». Stranamente per un brand di lusso di così lunga storia e di così grande e popolare successo, sembra quasi che la collaborazione non abbia avuto la minima ingerenza o forzatura commerciale – un approccio validissimo (la collaborazione è davvero molto bella) ma oggettivamente insolito considerate le manie di controllo che spesso i brand hanno sui propri partner creativi. Quasi dichiaratamente, la collaborazione serviva a portare i clienti di Our Legacy nel mondo di Armani: è il brand grande, questa volta, che vuole inserirsi in una nicchia e cerca l’appeal del brand di culto, quell’autenticità priva di mediazioni che il lusso, ingolfato dal suo stesso status, non può più riprodurre. I grandi nomi non possono più irrompere sulla scena: la loro stessa storicità, i grandi capitali in ballo, le reti distributive e di investimenti milionari sparse in tutto il mondo fanno di quei brand più i curatori della scena che i loro protagonisti.
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Non è tanto una questione di disparità tra le due identità coinvolte, spesso le collaborazioni luxe-cult portano insieme audience davvero molto disparate tra loro. Piuttosto che collaborare con realtà popolari come i brand di sportswear, queste collaborazioni si rivolgono a degli intenditori per assorbire il loro fascino e validare la loro credibilità. È il fascino del nuovo sangue, di visioni creative non offuscate dalle logiche iper-commerciali che gli stessi appartenenti al lusso istituzionale riconoscono come ineluttabili. In un momento storico in cui qualunque emozione suscitata dalla moda ha lo sgradevole sapore sintetico di un prodotto pre-fabbricato, la formula magica del desiderio, dell’eccitazione e del culto è andata perduta nel raziocinante deserto della strategia marketing, delle proiezioni di crescita e della cadenza, quasi meccanica, con cui drop e collezioni si succedono. Il meccanismo funziona: dopo una prima collaborazione per la SS19, Polo Ralph Lauren e il giapponese BEAMS sono rapidamente arrivati al decimo link-up in pochi anni; il pubblico dei social ha amato la collaborazione tra Lacoste e Golf Wang al punto di chiedersi come mai non sia una linea continuativa mentre The Elder Statesman ha saputo portare brio e spensieratezza al misurato guardaroba di Zegna preservando la coolness specifica (e anche diversa) di entrambi i brand.
Che la moda inizi a rendersi conto di come la commercialità estrema e l’assenza di rischi creativi la stia desaturando e fossilizzando? Dopo tutto queste collaborazioni non avvengono con brand emergenti ma con marchi ben stabiliti (Our Legacy esiste da quindici anni, The Elder Statesman da sedici, Golf Wang da dodici mentre BEAMS è in affari da 47 anni) lontani dalle logiche della grande distribuzione, hanno un sapore e un colore locali, un’attualità e un’attinenza coi tempi che solo un nativo può avere. Eppure, tranne alcune precise eccezioni (tipo Rick Owens o Enfants Riches Deprimès) lo status di “lusso” e quello di “culto” vanno sempre più separandosi e rendendo difficile per un brand di lusso trovare un seguito che non sia costituito da milionari drogati di loghi ma da nerd, per così dire, che vanno informandosi sulla lavorazione di un tessuto o il posizionamento di una cucitura. E di fatto il trend depone a favore della moda indie, più accessibile, più “vera”, più creativa. E, dopo tutto, l’intero senso della moda non si potrebbe rappresentare la costante ricerca dell’alternativa? Ma soprattutto: cos'è un brand senza una community?