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L’inverno sta arrivando per le vendite del lusso?

Ovunque le revenue calano – ma Hermes rimane invicibile

L’inverno sta arrivando per le vendite del lusso? Ovunque le revenue calano – ma Hermes rimane invicibile

C’è preoccupazione nel mondo del lusso. Tra un generale rimescolamento dei direttori creativi, un tentativo di ogni azienda di riposizionarsi sul mercato aumentando semplicemente i prezzi, uno scenario sociopolitico diviso e complesso e i traballamenti economici di tutti i mercati del lusso eccetto quello Giapponese, i venti dell’inverno soffiano freddi sull’industria della moda. Il boom delle vendite nel lusso post-pandemia ha lasciato spazio a un periodo di incertezza, portando molti a chiedersi se una glaciazione sia in arrivo e, se sì, quanto potrebbe durare. LVMH, forse il protagonista di maggiore spicco nel settore del lusso, ha riportato una crescita del 9% nel terzo trimestre per la sua unità di moda e pelletteria, quella di Louis Vuitton e Dior. Sebbene questa cifra di crescita sia stata positiva, ha segnato un rallentamento rispetto alle prestazioni più robuste nella prima metà dell'anno che ha fatto suonare qualche allarme per analisti e investitori. Il gigante del lusso ha registrato un calo dell'8% delle azioni, la sua più significativa diminuzione giornaliera da quasi due anni, un dato che Jean-Jacques Guiony, CFO del gruppo, ha spiegato così a Reuters: «Dopo tre anni ruggenti e straordinari, la crescita sta convergendo verso numeri più in linea con la media storica». Fattori come l'aumento dei tassi d'interesse da parte della Federal Reserve e il crollo della bolla immobiliare cinese hanno esercitato la loro influenza in quei mercati trainanti: specialmente nel mercato asiatico, Giappone escluso, i ricavi sono aumentati dell'11%, meno di un terzo della crescita del 34% registrata nel secondo trimestre. Più che di una notizia negativa si tratta di una notizia non-positiva, sembra solo una questione di semantica ma non lo è.

Anche da Kering le acque non sono proprio serene: nel terzo trimestre dell’anno la revenue è scesa del 9% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso con un calo di vendite che ha interessato tutti i brand. E se Gucci si trova ancora in un momento di transizione dato che le nuove collezioni di De Sarno non sono ancora in negozio; le revenue di Saint Laurent sono scese del 12% tenendo conto di cambiamenti nei tassi di cambio, inflazione ed eventi straordinari e quelle di Bottega Veneta del 7%. Il trimestre è stato «soft» per McQueen, «discontinuo» per Balenciaga e gli unici a crescere sono stati il dipartimento Eyewear, salito del 31%; Brioni, piazzaforte del quiet luxury, e i brand di gioielleria come Boucheron, Pomellato e Queelin. Secondo Pinault questa revenue al ribasso riflette gli esosi investimenti fatti nel differenziare il portfolio di brand ed elevare quelli già esistenti, oltre a stabilire maggiore controllo sulle vendite all’ingrosso – nei futuri statement bisognerà anche considerare l’acquisizione di Creed, non conteggiata qui, e l’influsso della Creative Artists Agency acquisita per sette miliardi negli scorsi mesi. Non di meno, anche se non fatale, un’emorragia rimane un’emorragia: la pressione sui direttori creativi per recuperare il terreno perduto sarà alle stelle nella prossima stagione. Come sempre inarrestabile, invece, Hermes ha dimostrato totale resilienza di fronte alle avversità economiche. Rimasto tra i pochissimi brand indipendenti e seguendo una strategia “purista” molto diversa dall’approccio omni-channel e celebrity-driven dei grandi gruppi, il brand della famiglia Dumas può decisamente gareggiare anche contro i pesi massimi più grossi di lui. Nonostante le aspettative di una crescita più lenta, Hermès ha riportato un aumento delle vendite del 15,6% anno su anno nel terzo trimestre – un risultato attribuito al persistente appeal di Hermes nei confronti della sua clientela iper-fidelizzata. Lo stesso si dica del Gruppo Zegna, che nel Q3 ha visto le revenue salire del 20,8% con un forte aumento in un mercato diventato ora difficile come il Nord America.

L’opinione comune su questo punto è che i consumatori in tutto il mondo stiano diventando più selettivi, concentrando i loro budget su marchi "must-have". Ma c’è un’altra cosa che forse i report finanziari non dicono: non si vende abbastanza perché si prova a vendere troppo. Di recente, il cliente fisso di un noto brand milanese si lamentava dell’eccessiva frequenza con cui il personale della boutique lo contatta a proposito di nuovi prodotti e nuove collezioni. Anche volendo, non sarebbe stato possibile comprare tutto e i messaggi e drop continui avevano iniziato a infastidirlo: nella vita come nel retail, non conviene mai mettersi nella posizione in cui ricevere tre “no” di fila. Insieme alla sovrastimolazione di una clientela che ha già gli armadi pieni di vestiti e alla sparizione dei clienti occasionali dovuta all’innalzamento della barriera dei prezzi, il riciclo dei direttori creativi ha creato anche un problema di fidelizzazione e continuità dato che l’estetica di alcuni brand varia di anno in anno e in certi casi si possono comprare oggi in boutique collezioni di un direttore creativo che è già andato via dal brand. È un circolo vizioso: un nuovo direttore creativo deve creare fiducia, ma se la sua “residenza” si limita a sole tre stagioni, al prossimo cambio di guardia l’estetica del brand cambierà marcia di nuovo e lo status del designer in questione sarà inevitabilmente cambiato se non decaduto. Esiste ormai una disconnessione tra direttori creativi e collezioni dovuta alla eccessiva mediazione e ingerenza di uffici marketing, CEO, dipartimenti commerciali e via dicendo: tranne che nei casi dei brand indie (che però vendono a fatica sempre per la loro instabilità) risulta a volte difficile cogliere l’autorialità di una certa collezione, la sua appartenenza a una visione creativa unica che fa sembrare i suoi design autentici e non una semplice operazione di branding. Inoltre, a furia di produrre quattro o più collezioni l’anno è ovvio che il fattore novità ma anche lo spazio di manovra creativo venga meno.

@angelsafternoon

bruh moment

Xtal - Aphex Twin

Paradossalmente, in questo scenario, Hermès continua a vincere sia perché, pur cambiando direttori creativi nei decenni, la sua estetica è rimasta continuativa e coerente, senza scossoni o shock particolari; sia perché è l’unico brand che si fa un punto d’onore di non voler vendere i suoi prodotti iconici al primo venuto, almeno non immediatamente. È l’unico brand che fa letteralmente faticare i propri clienti per farli accedere all’acquisto di una delle sue leggendarie borse: comprare una Birkin o una Kelly significa affrontare un’iniziazione, entrare in una famiglia putativa facendosi conoscere in negozio, segnalandosi comprando prodotti per mesi. Quando si è dentro, ci si trova in un club esclusivo in cui si rimane solo continuando ad acquistare. Un atteggiamento che non segue necessariamente la logica del costo come parametro del valore che altri brand professano provando a riposizionarsi alzando solo i costi: è un senso di esclusività artificiale, piccolo-borghese, una porta che chiunque potrebbe aprire semplicemente se avesse i soldi. Esempio supremo è l’abito in viscosa di Burberry da 16.900 euro, diventato virale proprio perché nessuno è in grado di capire perché costi così assurdamente tanto: sarebbe stato forse più profittevole fare un abito che costasse un sesto di quella cifra ma renderlo abbastanza iconico da farne vendere svariate migliaia. Più che domandarsi di quando e se i clienti del lusso torneranno ad alimentare le vendite, insomma, bisognerebbe forse chiedersi del come e del perché dovrebbero farlo.