La prevedibile rovina degli influencer brand
Come Matilda Djerf e Danielle Bernstein hanno perso credibilità
18 Ottobre 2023
La vita di un’influencer è scandita da progetti di collaborazione con mega brand, da partecipazioni a sfilate all’ultimo grido, in alcuni casi dal lancio di una propria linea beauty o di abbigliamento, ma quasi sempre da una sfilza di controversie a cui far fronte. Questo ottobre, il mirino della critica social è stato puntato su Matilda Djerf, l’eroina svedese seguita da oltre 3 milioni di follower. Il movente? Come ci si poteva aspettare da un'attività che riproduce i trend del momento, l’accusa di essere diventata un copycat. L’arma del delitto? Un pigiama con fantasia a frutta. È difficile che l'impero costruito da Djerf negli ultimi anni cada del tutto, eppure esempi passati dimostrano che, almeno nella fashion industry, un paio di controversie possono bastare a rovinare irrimediabilmente intere reputazioni.
@rachelkaejenkins3.0 Replying to @Khlo SLAY AMAZON OMG
Nonostante sia stato lo stesso Djerf Avenue, il brand fondato dalla promotrice della clean girl aesthetic, il primo a scagliare la pietra dell’infrazione copyright contro alcuni utenti su TikTok, Matilda Djerf adesso si ritrova a dover fare i conti con una folla esaltata di hater - una volta lover. Tutto è iniziato quando alcuni TikTok creator che pubblicavano dupe di Djerf Avenue hanno cominciato a ricevere segnalazioni di trademark. Alla vista dei pigiami-imitazione di Amazon, identici a quelli disegnati da Djerf, il brand si è scagliato contro le micro-influencer. La pagina ufficiale di Djerf Avenue ha poi postato sui propri canali social, «Purtroppo, di recente si è verificata un'ondata di siti web che vendono prodotti con il nostro design e con stampe/opere d'arte di nostra proprietà. Alla luce di ciò, e per salvaguardare le nostre stampe e i singoli designer di stampe, abbiamo una società esterna di proprietà intellettuale (IP) che controlla le violazioni del copyright.» Malgrado l’intenzione dell’azienda di Djerf di contrastare eventuali copioni, la situazione si è completamente capovolta a causa di un piccolo particolare che nel mondo iper-vigilante dei social non passa mai inosservato: la fedina penale sporca - in tempi odierni anche conosciuta come impronta digitale.
Come tutte le content creator di moda, la carriera di Matilda Djerf è iniziata quando un paio di foto del suo outfit sono diventate virali sui social. Il suo stile pulito, ordinato e fermamente incentrato su un’estetica scandinava, e quindi elegantemente a cavallo tra semplicità e funzionalità, ha convinto fan provenienti da tutte le parti del mondo che il suo fosse un look all’avanguardia. Più tardi denominato “Clean Girl Look”, lo stile personale di Djerf è stato acclamato, copiato e reinventato, ma il suo nome compariva sempre tra i crediti. Con il lancio ufficiale del brand di Djerf nel 2019, era emersa online una presunta teoria di appropriazione culturale, dato che i suoi codici stilistici riprendevano anche quelli della comunità sudamericana, ma l’accusa aveva avuto breve vita; l’immaginario di Djerf Avenue era ormai troppo ancorato nel collettivo social come un sogno griffato in sleek bun, fino ad adesso senza una grinza. A marzo del 2023, il brand riportava un fatturato da 35 milioni di dollari.
@lilimannin #matildadjerf #scandinavianstyle #cleangirl #scandinavia #controversy IT GIRL OUT SEPT.30th - aliyahsinterlude
La prima delle accuse rivolta all’influencer-designer è stata la noncuranza con cui si è scagliata contro le micro-influencer. Mentre il prezzo medio di un capo di Djerf Avenue si aggira tra i 200 e i 300 euro, quelli promossi dai TikTok creator segnalati costavano molto meno. A questo proposito, sono stati criticati anche i suoi design, troppo poco originali per essere «copiati», perché a loro volta prendono ispirazione da abiti e accessori vintage, o da pezzi già presenti nell’armadio di Djerf. «Go touch grass», è stata la frase preferita delle ex fan dell’imprenditrice. Dopo tutto, anche lei ha iniziato come micro-influencer, e le proposte attualmente disponibili du Djerf Avenue si limitano a - pigiama con macedonia a parte - camicie millerighe, trench color cammello, gonne e tubini in cotone nero e qualche top con inserti in pizzo. La controversia che sta colpendo Djerf questa settimana ricorda vagamente quella dell’altrettanto popolare Danielle Bernstein, anche se nel suo caso la situazione è ben più grave. Le accuse di aver copiato designer indipendenti la perseguitano da anni, fin da quando ha lanciato il suo brand WeWoreWhat (ironicamente rinominato WeStoleWhat dagli hater più accaniti) eppure l’imprenditrice digitale continua imperterrita per la sua strada, con gli occhi fissi sull’obiettivo, ma con i commenti disattivati. «Un grosso errore che ho commesso quando è successo tutto questo è stato quello di rispondere a tutte le richieste di risarcimento che mi arrivavano,» ha dichiarato Bernstein ad una recente intervista con BoF. «Imparare a bloccare completamente quel rumore e a non affrontarlo non solo ha cambiato le cose per la mia salute mentale, ma anche per il mio team e per il marchio.»
@kelsey_kotzur So disappointing. #daniellebernstein #weworewhat #nyc original sound - kelsey kotzur
Da un lato, il successo di Djerf Avenue e WeWoreWhat rappresenta una storia di successo e d'ispirazione per molte micro-influencer che, come loro anni fa, sognano di venire riconosciute a livello internazionale, dall’altro non fanno altro che peggiorare il rapporto tra designer indipendenti, portavoce di originalità e innovazione, e giganti della moda spicciola, giustificando i metodi operativi tramite un processo di creazione che si riduce all’imitazione di un trend o di un’altro. Come loro, anche il francese Simone Porte Jacquemus, le italiane Gilda Ambrosio e Giorgia Tordini e l’americano Telfar Clemens hanno un grosso seguito online, ma a differenza dei brand creati post-fama da Djerf e Bernstein, i grandi traguardi raggiunti dalle tre forze creative vanno ben al di là dell’impennata di engagement dei loro account personali. Quello che a volte i critici social si dimenticano è che, purtroppo, la portata mediatica di un prodotto non ne garantisce unicità né qualità, anzi, capitalizzare sui propri follower fondando brand privi di visione artistica, qualunque sia il fatturato, bandisce automaticamente il nome della tua azienda da un possibile accesso al paradiso della moda, sia questa la Fashion Week o più semplicemente la tua stessa reputazione.
Gen z will be like “Matilda Djerf dupe!!” “skims dupe!!!!” and then show a grey long sleeved t shirt https://t.co/jIdRPWskD6
— leah (@leahtfa) January 3, 2023
La continua risalita e il fatturato record di brand come quello di Djerf e di Bernstein - l’imprenditrice americana afferma che WeWoreWhat ha fatturato $30 milioni in vendite lo scorso anno - sono la prova che, malgrado l’alternarsi delle controversie e delle polemiche di cui si ritrovano protagonisti, i content creator atterrano spesso sulle proprie gambe. Non ci è dato sapere se questo accadrà anche per il fantastico mondo di Matilda Djerf - anche se potremmo puntare tutte le nostre fish su una scampata rovina - ciò in cui possiamo sperare è solo che questa storia apra gli occhi al pubblico social su chi nella moda merita davvero lo spazio di esprimersi.