Minimalismo e ridondanza nello show SS24 di Saint Laurent
Quanto può essere elegante una tasca cargo?
27 Settembre 2023
Yves Saint Laurent creò la sua prima giacca Safari, nota ai più come Saharienne, nel 1967 per la collezione detta Bambara. L’anno dopo, nel pieno dei moti sessantottini, quello stesso modello di giacca, in versione couture, apparve sulle pagine di Vogue ottenendo un enorme successo e, l’anno dopo ancora, la giacca Safari fece la sua comparsa nelle vetrine della boutique di Rue de Tournon diventata leggendaria nella moda come Saint Laurent Rive Gauche, forse la più importante culla del prêt-à-porter come lo conosciamo. Da lì in avanti, anche grazie al fatto che lo stesso designer amava indossarle, le giacche Safari divennero un pilastro dell’estetica androgina di Saint Laurent direttamente ispirato, secondo il Musée YSL di Parigi, alle tenute degli Afrika Korps della Seconda Guerra Mondiale. A partire dal 1964, invece, al grido di «Nulla è più bello del corpo nudo» venne introdotto il primo abito trasparente che poi divenne nel ’68 un abito del tutto trasparente con una cintura di piume di struzzo e poi ancora nel ’69, lo stesso della giacca Safari, un lungo abito drappeggiato di chiffon trasparente. L’epoca che potremmo definire sessantottina del brand era di certo nella mente di Anthony Vaccarello per la collezione SS24 di Saint Laurent che è andata in scena ieri all’ombra della Tour Eiffel con il solito, faraonico impianto. Ma nonostante la precisione con cui Vaccarello è riuscito a inquadrare la silhouette del brand e sublimarne l’estetica, qualcosa mancava.
Tolto il vasto padiglione di marmo, tolta la stupenda musica di Sébastien Akchoté-Bozović che quest’anno aveva vibe decisamente più mistici ed egizi, l’estrema semplicità dei look dello show è parsa un po’ ridondante. A Vogue, Vaccarello ha detto: «Non ho voluto fare quasi nulla» reagendo così al presunto iper-decorativismo dei suoi competitor (riferendosi forse a Dior?) rivelando certamente nobilissime intenzioni ma forse non rendendosi conto del fatto che circa il 38% dei look, 19 su 49, erano una ripetizione o variazione di una boiler suit o un completo Safari con grosso colletto e pantaloni stretti in vita – e questo senza contare le volte che la giacca Safari era abbinata a una gonna. Il 24% dei look, invece, era costituito da un top o un abito trasparente. Si capisce bene che se è possibile calcolare la quantità percentuale di quanto un certo design ricorre sulla passerella, la collezione presentata è abbastanza ripetitiva. Ma volendo mettere di lato la matematica, bastava un paio di occhi per rendersi conto che il medesimo look stava comparendo ancora e ancora - un look esteticamente bellissimo, sia chiaro, molto in linea con il brand, vendibile e pratico, ma non di meno proposto troppe volte per risultare eccitante alla decima apparizione. È il caso di parlare di una collezione molto bella nel suo algido autocontrollo ma che aveva bisogno di maggiore sintesi.
La comprensione che Vaccarello ha del brand e del linguaggio del grande Yves, comunque, sono magistrali. Pur attestandosi sulle posizioni di un severo, desiderabile minimalismo che strizza l’occhio ora agli anni ’70, ora agli ’80 e via dicendo, i capi di Saint Laurent sono estremamente portabili, tutti parte di un universo forse anche più coerente e conciso di quello concepito in origine dal founder che, nell’ottobre del ’76, presentò famosamente una collezione primaverile di 281 look la cui sfilata durò due titaniche ore – un tipo di auto-indulgenza pericoloso, che per molti restò il primo sintomo di quell’eccesso debordante e un po’ decadente che mise in crisi il brand intorno agli anni ’90. E considerato come le recenti collezioni del brand, tutte bellissime, abbiano iniziato a seguire uno schema che diventa sempre più prevedibile stagione dopo stagione, servirebbe forse iniziare a introdurre sorprese più stimolanti di un paio di pantaloni cargo in una collezione dal mood desertico. Guardando alla storia del brand, Vaccarello o chi per lui dovrebbe tenere a mente l’importanza della sintesi che lo stesso Yves non conosceva nella fase più tarda della sua carriera. Ciò che dice è bellissimo, il suo linguaggio chiaro e cristallino – ma anche la canzone più bella stanca se si prolunga troppo.