Gli uomini secondo Alexander McQueen
La storia dimenticata del menswear creato dall'enfant terrible della moda
11 Febbraio 2024
«L’abbigliamento maschile è una questione di sottigliezza. Una questione di stile e buon gusto», disse una volta Lee McQueen. Parole francamente troppo vaghe per rappresentare una poetica intera. Se il designer britannico voleva che le persone si spaventassero delle donne che vestiva, non si può dire lo stesso degli uomini – categoria per cui voleva piuttosto «demolire le regole e mantenere la tradizione» e che, almeno per le collezioni che vanno dal ’96 al ’98, in cui si trovava una minoranza di look maschili, erano quasi un’estensione dei ben più arditi concept femminili. E anche quando McQueen lanciò ufficialmente una linea di menswear vera e propria nel 2004, installandone la residenza alla Milan Fashion Week, l’attenzione di tutti restò fissa alle collezioni femminili. Fu dopo che il brand raggiunse una stazza considerevole, e dopo la morte di McQueen stesso nel febbraio 2010, che le due linee, maschile e femminile, si assestarono su una più comune e commerciale lingua franca – prima di allora, le collezioni “canoniche” di McQueen sono ancora oggi considerate solo femminili. Eppure, McQueen si era fatto le ossa tra i più esigenti sarti di Savile Row, Anderson & Sheppard e Gieves & Hawkes, che producevano addirittura i completi per gli uomini della famiglia reale (una volta McQueen raccontò di avere cucito la frase “I am a cunt” nella fodera di una giacca dell’attuale Re Carlo III) per poi fare il modellista di costumi teatrali nella sartoria Angels & Bermans. Ed è chiaro che, se l’abbigliamento femminile era per lui un campo di sperimentazione artistica senza precedenti oltre che una forma di escapismo, quello maschile rappresentava un progetto più direttamente biografico, ancorato alla realtà, soggetto come tutto alla «fragilità del romanticismo».
Ma com’era l’uomo di McQueen? Il designer mise in discussione le classiche norme di genere con grande sottigliezza: se i suoi modelli furono sempre abbastanza mascolini, era nella sartoria che si nascondevano le innovazioni. Per il primissimo esperimento nel menswear, una linea di dodici look su misura co-firmati con H. Huntsman & Sons (definiti dal designer i migliori sarti di Savile Row) vennero creati completi così descritti da Vogue nel luglio 2002: «Vita stretta, baveri più ampi e […] bottoni d'oro, spille da cravatta e gemelli con diamanti rosa e gialli». Esisteva naturalmente una sovversione più palese, e specialmente nello show SS98 che vide uomini indossare corsetti e infradito con un leggero tacco, ma la rappresentazione sartoriale della queerness si trovava, appunto, nella sartoria e spesso volava al di sotto dei radar. Guardando oggi i look maschili di McQueen, la complessità strutturale e semantica della loro costruzione si percepisce soltanto in parte – i completi paiono solo completi e si fa fatica a scorgere, sotto le giacche, i cardigan sottilmente ricoperti di paillettes, il filetto di pelle che ricopre l’orlo di un maglione, la vita funzionale ma stranamente bassa per un pantalone tradizionalmente maschile, la pelliccia che decora maniche e colletto di un cappotto da uomo.
Durante un Q&A online risalente a vent’anni fa, nel 2003, e pubblicato su SHOWstudio, gli venne fatto notare come il menswear stesse assumendo la stessa varietà, colore e stile del womenswear e, alla domanda sulla sua immagine maschile ideale lui rispose: «L'abbigliamento maschile è fondamentalmente progettato dagli uomini stessi. È la categoria più difficile da disegnare in qualsiasi brand, perché il suo pubblico è così testardo. Gli uomini non amano le imposizioni [della moda] come le donne». E dunque le ambiguità e le sfumature della queerness venivano incorporate e dissimulate nella struttura longilinea degli abiti, nelle spalle strette, nella maniera in cui la costruzione di giacche e pantaloni accentuava la curva della schiena e dei glutei, nella maniera in cui cuciture, tasche ed elementi strutturali concentravano l’attenzione sulla regione pelvica degli uomini, nella spalla a pagoda di certi completi che evidenziavano il profilo dei muscoli trapezi – una «costellazione di temi contradditori» che Icon spiegò bene, molti anni fa, in un interessante approfondimento di nome Kinky Suits che dimostra quanta tecnica fosse nascosta nel lavoro di McQueen.
Visti oggi, quei look non sembrano rappresentare davvero la non-binarietà come la pensiamo oggi. Più che un discorso sulle convenzioni del vestire, comunque, McQueen era solito raccontare se stesso, le proprie impressioni e i propri gusti attraverso il suo menswear. In Alexander McQueen: The Life and the Legacy, Judith Watt nota che, se i primi esperimenti nel menswear fino al 2002 erano stati prodotti con un cliente ideale in mente, dal 2005 in avanti McQueen disegnò con i propri gusti personali come riferimento ideale. Come scrive Keri Rowe nel suo saggio Elevating the Other dedicato alla collezione SS06 “Killa” del designer: «Avendo trascorso gran parte della sua carriera a difendere la forza delle donne nelle sue collezioni, è giusto che nell'approcciarsi all'abbigliamento maschile difendesse le proprie vulnerabilità. McQueen ha spesso dichiarato che le sue collezioni si riferivano direttamente alla sua vita». Alcuni elementi ricorrono spesso: il completo formale, il top trasparente, la maglia smanicata, il corsetto, il ricamo barocco. Ma se questo senso del decorativismo, culturalmente onnivoro, rifletteva le passioni e ossessioni artistiche di McQueen, la vera rivoluzione avveniva nelle minuzie della costruzione – proprio come nel caso della giacca dell’attuale Re Carlo III, il messaggio del designer era profondamente celato nella struttura degli abiti, lo si poteva forse avvertire ma non chiaramente discernere. Negli anni ’90, Karl Laferfeld disse in un’intervista che il senso della moda di McQueen era «più vicino a Damien Hirst che a Givenchy» riferendosi alla turbolenta permanenza del designer inglese a capo della direzione creativa del brand.
Come si diceva, però, molto di questo vasto patrimonio di menswear oggi è stato, se non dimenticato, almeno offuscato dalla magnitudine dello spettacolo portato in passerella dalle collezioni femminili. Subito dopo la morte di McQueen, Sarah Burton compose una collezione ispirata ai costumi storici inglesi che ancora portava una traccia dell’estetica a cui il designer aveva abituato il pubblico. Ma era scomparsa la volontà di scioccare, così come quel senso di spudorata irriverenza che, all’indomani dell’acquisizione del Gucci Group (che poi diventerà Kering), lo portò a rispondere a chi si chiedeva se sarebbe diventato più commerciale: «Non sono mai diventato più commerciale, sono sempre lo stesso. Niente mi influenza». Certo, McQueen stesso credeva nella mescolanza di alto e basso, dopo tutto fu sempre lui a lanciare McQ, la linea di diffusione del brand che esiste ancora oggi. Non di meno, non è difficile credere che un designer tanto opposto all’establishment e all’ipocrisia del marketing avrebbe reagito di fronte alla iper-commercializzazione del suo menswear e del suo brand che, tra l’altro, finì pure per produrre il celebre abito nuziale di Kate Middleton per le nozze reali britanniche – basti pensare che in vita McQueen, uno scozzese per cui l’Inghilterra aveva letteralmente violentato la sua patria, aveva rifiutato un invito formale della regina d’Inghilterra a una cena di stato con l’imperatore del Giappone. Un classico caso di «O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo».