Quand’è che un brand diventa troppo ripetitivo?
Esplorando il sottile limite tra identità forti e forti sbadigli
12 Agosto 2024
Con la graduale saturazione del mercato della moda e il ritmo frenetico con cui si succedono le collezioni, il concetto di brand fatigue è riemerso nel dibattito pubblico sulla moda. Quando le collezioni di un brand diventano troppo ripetitive il pubblico finisce con l’annoiarsi ma, allo stesso tempo, quando un brand non possiede un’identità fissa e ben stabilita il pubblico non sa perché dovrebbe comprarne i prodotti. La “brand fatigue” è stata il principale fattore dietro l’uscita di Alessandro Michele da Gucci secondo l’analista Luca Solca il quale, a suo tempo, disse al Financial Times che il designer romano aveva «continuato a fare la stessa cosa per sette anni». Di recente l’accusa di ripetersi eccessivamente è caduta anche su Demna e Balenciaga, su Jacquemus, su Chanel, su Dior, su Saint Laurent. Allo stesso tempo, però, questa accusa pare essere molto selettiva dato che designer come Hedi Slimane, Rick Owens, Yohji Yamamoto, Christophe Lemaire o Emily Bode martellano da anni sulle stesse silhouette, gli stessi capi. Ma allora dove sta la differenza? Per spiegarci e spiegare meglio il fenomeno, abbiamo chiesto a due giornalisti, un designer e un buyer la loro opinione a riguardo. Di fronte alla nostra domanda sulla ripetitività del lavoro di alcuni designer Domenico Formichetti, founder di Formy Studio e PDF, ha risposto con una disarmante tautologia: «La monotonia è monotona», aggiungendo poi che: «Secondo me la chiave della continuità e del mantenimento dell’identità di un brand sta nel conservare l’emblematicità di un capo, facendolo evolvere ma senza snaturare la sua essenza». Quando lo abbiamo interrogato a proposito dello stesso argomento, invece, il critico indipendente britannico Odunayo Ojo ha definito la monotonia come «la ripetizione costante di un design generico».
I’m kind of over Alessandro Michele’s Gucci tbh. Like I get it. Luxury thrift store chic. But how long can it last till it’s unbearably repetitive?
— Hoettega Veneta (@lavieenlacroix) January 14, 2020
Eugene Rabkin di StyleZeitgeist crede che «la variazione dei prodotti deve essere sufficiente a mantenere vivo l'interesse dei fan del marchio e a permettere loro di costruirsi un guardaroba». Sottolineando, nella sua risposta, l’idea di un guardaroba da costruire progressivamente già raccontata in un articolo di qualche anno fa, Unlimited Edition, dove si notava che «i designer che producono i medesimi prodotti stagione dopo stagione tendono a essere anche quelli con i fan più devoti». Ma allora perché utilizzare due mezzi e due misure con diversi designer? Secondo un buyer milanese che ha richiesto di restare anonimo il discrimine sta nella «commercialità» del brand. «La ripetizione va bene, con le opportune variazioni, quando un brand possiede un appeal di nicchia: i clienti si aspettano un’estetica ben precisa e quindi continuano a tornare. I brand più commerciali, invece, sono costruiti su un modello magari più redditizio ma anche intrappolato nel meccanismo della stagionalità e dei trend». Un’opinione che anche Odunayo Ojo ha riecheggiato: «Alcuni designer che hanno costruito filosofie di design possono essere ripetitivi e farla franca, come Yohji Yamamoto e Rick Owens. D'altro canto, i marchi che cambiano drasticamente la loro estetica a ogni stagione non possono essere ripetitivi perché non funzionerebbero a livello commerciale, pensa a Dior Homme o Louis Vuitton. Ogni marchio è diverso e ha una clientela diversa». Esiste forse un pubblico che guarda alla moda ricercando le tracce di un gusto e di un’indole; e un altro pubblico che invece cerca un riflesso immediato e scintillante dei tempi, un senso di status e popolarità che sia attuale ma che possa anche prescindere da una traccia identitaria singolare e si rifaccia all’identità vasta, collettiva e pop di un brand centenario. La prima moda è quella degli autori, la seconda quella del fashiontainement: una si basa sulla costruzione o lo scavo progressivo di un’estetica, l’altra si alimenta di costante novità; una si rivolge all’interno, l’altra all’esterno; una ha un seguito, l’altra ha una clientela. Sulla base di questa o quella natura, le aspettative soggettive e collettive del pubblico si dividono e si orientano, riverberandosi nella reputazione del singolo designer o brand.
La distinzione dunque riposa nelle mani della clientela e della maniera in cui essa si rapporta al marchio e il discorso ricade, oltre che su percezione e aspettative, anche su modalità e capacità di fruizione della moda che si vede in passerella. Come Rabkin ha sintetizzato per noi: «Sono favorevole ai designer che creano un'estetica e la sfruttano a fondo. Ma chi non presta molta attenzione si annoia facilmente». Che vale a dire, in breve, come la monotonia sia in qualche modo ingranata nella moda e nella costruzione di un’identità ma che debba coesistere con una variazione sottile ma abbastanza evidente da stimolare il pensiero di chi guarda – premesso, ovviamente, che un pensiero ci sia. Sulla questione della noia è tornato anche Domenico Formichetti, che l’ha collegata alla maniera in cui la moda di oggi viene comunicata come parte dell’offerta più generale dei social: «Oggi annoiare le persone è facilissimo. Siamo bombardati da notizie, immagini e video tutti i giorni, ventiquattro ore al giorno. Spiccare in questo oceano di creativi è davvero arduo». E dunque come distinguersi? La risposta forse è di una semplicità tanto disarmante quanto inafferrabile: la personalità. Quando, ad esempio, domando a Ojo come imposterebbe la distinzione tra “brand identity” e “brand fatigue” la sua risposta è molto chiara: «L'identità del marchio rimane comunque a prescindere da ciò che il designer crei. Yohji Yamamoto potrebbe letteralmente disegnare una barca e sarebbe comunque la quintessenza di qualcosa che ci si aspetta da lui dal punto di vista estetico. La brand fatigue, invece, si verifica quando un marchio è completamente a corto di idee e si limita a replicare per filo e per segno i vecchi modelli cambiandone solo il colore».
@coutureandsteel Yohji Yamamoto is like a wise old wizard. I love this piece, and I adore his respect for mcqueen. Mcqueen was an artist, and real recognizes real, seriously. Fast fashion is a problem in many ways, but I’m very keen on how it destroys-or even censors- deep artistry through clothing. Regardless, Yohji is the man. This clip is repurposed from “ Yohji Yamamoto | Full Address and Q&A | Oxford Union.” By OxfordUnion on YT. #fashiondesignstudent #fashiondesignstudentlife #fashiondesignerlife #fashiondesigner #yohjiyamamoto #yohjiyamamotopourhomme #y3 #fastfashion #alexandermcqueen #fashioninterview original sound - couture&steel
L’esempio portato da Ojo, quello di un’ipotetica barca disegnata da Yohji Yamamoto (cosa non troppo implausibile: il designer non si è mai cimentato nella progettazione navale, ma ha in effetti disegnato una Lamborghini nel 2020), fa riflettere come probabilmente esistano designer il cui seguito sia così infervorato da essere pronto ad acquistare e collezionare il suo outpout in qualunque forma esso arrivi. In questo senso, questi designer più autoriali, in possesso di «una certa identità che si presta a un linguaggio di design», come la definisce Ojo, sanno di avere una nicchia di pubblico fidelizzata e possono permettersi la propria ripetitività dato che il loro pubblico, paradossalmente, non segue la moda nel senso più ampio del termine. La moda più direttamente commerciale invece è in un certo senso costretta a seguire e sospingere le tendenze, adattandosi ai gusti del pubblico - un po’ come Dior ha fatto con la sua collaborazione con Birkenstock, che ha risposto al trend dei Boston Clog senza anticiparlo o avviarlo. Posta questa differenza, si potrebbe forse concludere dicendo che quello che conta è il risultato finale e che non esistono designer ripetitivi: solo designer che sono a corto di idee.