La dipendenza economica dalla Cina spaventa i brand europei?
Un recente incontro del G7 ha sollevato la tematica
18 Maggio 2023
Dopo un incontro tenutosi a Nigata, in Giappone, nel corso della settimana, i leader dei Paesi del G7 hanno annunciato una nuova partnership di nome RISE (acronimo di Resilient and Inclusive Supply-chain Enhancement) per rafforzare la tenuta delle supply chain globali dopo anni di forti tensioni geopolitiche tra paesi occidentali, Russia e Cina che, dopo il lockdown, hanno creato numerose interruzioni alle supply chain globali oltre che molte perdite economiche. Tra le varie problematiche ci sono le tensioni geopolitiche in Taiwan, la questione degli uiguri nello Xinjiang, problemi di sicurezza in campo tecnologico ma anche il rifiuto da parte della Cina di prendere le distanze dalla Russia per la guerra in Ucraina. Pur senza fare i nomi di paesi specifici, l'accordo, che coinvolge i Paesi del Nord America, dell'Europa occidentale e il Giappone, sembrerebbe mirare a rafforzare il blocco collettivo contro la Russia e a ridurre la dipendenza economica dalla Cina autorizzando di fatto la pratica del friendshoring, ovvero il progressivo dirottamento delle supply chain verso paesi più “sicuri” politicamente ed economicamente, ovvero verso i propri alleati geopolitici. Questa nuova politica potrebbe avere forti ricadute sull'industria della moda, dato che la produzione cinese svolge un ruolo cruciale per essa - secondo BoF circa metà della stoffa usata nell'industria della moda proviene dalla Cina. Ma quanto è realistico attuarla? E vale la pena per aziende e gruppi del lusso inimicarsi il governo cinese? Ovviamente il processo non è naturale né immediato.
@pffueiojk59xfg High quality shoes from China factory
original sound - shoe party
Oggi la Cina è il più importante fornitore di materie prime, il maggiore esportatore di abbigliamento al mondo e ha un ruolo integrale nel mantenimento delle complesse supply chain globali - senza menzionare come il mercato cinese rappresenti una vera e propria lifeline per il sostenimento di numerosi brand. Alcune aziende, comunque, hanno già preso provvedimenti per affrancarsi commercialmente dal paese. Levi's, ad esempio, ha ridotto la produzione in Cina dal 16% del 2017 all'1-2% del 2019. I leader del settore, però, pur riconoscendo la necessità di diversificare le supply chain, hanno optato per policy e strategie estremamente prudenti considerato come le relazioni tese tra Cina e USA abbiano complicato ulteriormente l’andamento di un mercato globale sempre più caratterizzato da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità. In questo contesto, molti manager dell’industria della moda prevedono che le interruzioni della supply chain saranno uno dei principali fattori che influenzeranno la crescita economica globale nel 2023, come anche evidenziato nel rapporto The State of Fashion 2023 firmato da BoF e McKinsey. Il rapporto rivela anche che quasi due terzi dei dirigenti della moda stanno valutando la creazione di specifici hub produttivi dedicati a soddisfare la domanda del mercato statunitense ed europeo. Alcune aziende di moda hanno già iniziato a mettere in atto strategie per diversificare le supply chain. Hugo Boss, ad esempio, ha aumentato la sua produzione in Paesi come la Turchia e la Polonia. VF Corp, quella di Supreme e The North Face per intenderci, invece vorrebbe produrre nelle regioni in cui i suoi prodotti vengono consumati, ad esempio raddoppiando la produzione di 500.000 paia di scarpe Timberland in Portogallo e collaborando con i propri fornitori messicani per la produzione di 300.000 paia di Vans.
“A combination of supply chain chaos, higher costs and concerns about working conditions is forcing some western fashion brands to rethink their decades-old dependence on factories in China.” https://t.co/KNv7NN9U3l
— Sari Arho Havrén (@SariArhoHavren) February 18, 2023
Ma diversificare non è semplice: i paesi del Sud-Est Asiatico, Corea del Sud e Giappone, ma anche mercati latinoamericani, Messico in testa, risultano meno equipaggiati per una produzione massificata o meno convenienti sul piano economico. In altri paesi come ad esempio quelli africani, che rappresentano poli manifatturieri emergenti, vanno invece affrontate questioni di instabilità politica e di scarsa preparazione a una produzione di scala globale - due recenti casi evidenziati da BoF sono l'Etiopia e il Kenya. Anche paesi come il Brasile, il Sud Africa e l'India, spesso considerata la migliore potenziale alternativa a lungo termine alla Cina, non sono perfettamente allineati nei confronti della Russia in merito alla guerra in Ucraina – senza menzionare le sfide in termini di logistica, infrastrutture e porti che questi paesi devono ancora affrontare e che invece la Cina ha già ampiamente risolto.
In questo scenario entra poi in gioco un effetto paradossale del friendshoring. Paesi come il Vietnam, che si ritrovano a dover produrre di più, sono costretti ad aumentare le importazioni di prodotti tessili, materiali o componenti dalla Cina rafforzando il legame tra i due Paesi, anziché contrastare l'influenza di Beijing. Di conseguenza, molte aziende di moda scelgono di mantenere i legami con la Cina ma di espandere la produzione altrove. È chiaro che diversificare la supply chain non significa rompere del tutto i rapporti commerciali – cosa che sarebbe catastrofica per tutte le parti coinvolte. Cosa tra l’altro sottolineata dal Segretario del Tesoro statunitense Janet Yellen, che ha di recente rimarcato la profonda integrazione tra l'economia cinese e quella americana. E anche se la Cina sostiene di essere a favore di una relazione sana e reciprocamente vantaggiosa con gli USA, numerosi gruppi industriali hanno esortato Stati Uniti ed Europa a siglare patti commerciali paralleli con altre nazioni per garantire una maggiore stabilità nel caso in cui le attuali e controllabili tensioni geopolitiche dovessero precipitare per qualunque motivo. Ma è comunque chiaro che questi accordi non possono essere ridiscussi in qualche giorno – la strada è ancora molto lunga.