Fear of God e il rinascimento della sartoria americana
Lo show di Jerry Lorenzo è stato il culmine di una stagione che ha ripensato la tradizione del tailoring
21 Aprile 2023
Nella notte tra mercoledì e giovedì all’Hollywood Bowl di Los Angeles, Fear of God ha presentato la sua collezione SS23 con la sua prima sfilata dal vivo – uno show che ha portato a definitivo compimento quella lenta svolta sartoriale iniziata con la collaborazione del brand con Zegna e poi proseguita durante i fortunati anni post-Covid a suon di monumentali cappotti, toni neutrali e generosi drappeggi. Una visione elaborata nel tempo da Jerry Lorenzo che, nel corso degli anni, è arrivata a includere e sublimare le diverse sfaccettature di una mitologia americana fatta di lusso tradizionale mescolato a sportswear elevato, di gentiluomini in doppio petto, cowboy in jeans e giacche scamosciate e atleti in tuta grigia – operazione simile a quella fatta da Ralph Lauren, L.L. Bean e J.Crew negli anni ’80 e ’90 ma adattata ai tempi e al pubblico moderni. La popolarità di cui gode Lorenzo in America e all’estero, la sua capacità di raccogliere intorno a sé un milieu di celebrità che ruotano intorno a hip-hop, musica e cinema creando una koinè stilistica basata sull’idea di “essentials”, la maniera in cui riesce a far dialogare ispirazione sartoriale, borse e tacchi con collaborazioni pop come quella con adidas o Birkenstock fanno di Fear of God uno dei pochissimi brand sopravvissuti all’era dello streetwear dopo esserci nati.
Ma il fenomeno che l’espansione di FoG non è isolato: nelle ultime stagioni sono stati molti i brand a stelle e strisce a spingere verso una ridefinizione dell’ambito e dello scopo della sartoria classica, da brand arcinoti agli insiders come The Row, Bode, Peter Do, Thom Browne e Rowing Blazers, fino a marchi di culto o emergenti come Todd Snyder, Stoffa, WINNIE New York, The Academy, Teddy Vonranson, Willy Chavarria ma anche il brand di mocassini Blackstock & Weber. Se in passato la moda americana popolare (non parliamo certo di De La Renta, Vera Wang o Donna Karan) è stata definita dalla sua vistosità, eccentricità, dalla sua ossessione verso un guardaroba informale e sportivo, riuscendo poco a sedurre il pubblico europeo più “adulto” e magari legato a tradizioni sartoriali proprie (come quelle italiana, inglese o francese) oggi le cose stanno cambiando. Stranamente però, proprio la buona riuscita di recenti collezioni più riconoscibilmente classiche è legata proprio all’attaccamento dei designer al linguaggio streetwear che li ha portati a focalizzarsi su proporzioni ampie e avvolgenti, colori brillanti, reinterpretazioni comode di vetusti codici formali. Un aggiornamento delle classiche uniformi maschili a metà tra prep e leisurewerar che è arrivato anche in Europa sotto le spoglie di un quiet luxury diffuso oggi un po’ ovunque che mescola il rigore e la squisitezza dei dettagli della grande sartoria con la praticità e la portabilità di workwear e streetwear.
Se oggi ad esempio la chore jacket sta sostituendo il blazer per i look più sportivi lo si deve proprio alla popolarità di cui, storicamente, il workwear ha goduto nella scena hip-hop anni ’90 e a una passione per il vintage militare che, prima dell’esplosione dell’archival fashion, era confinata in Europa a una ristretta comunità di estimatori che trovava espressione, fino a qualche anno fa, solo tra i peacocks che popolano Pitti Immagine. Ma oggi le cose non stanno più così: se su TikTok un cantante come Tony Effe canta oggi «Completo Loro Piana quando vado in tribunale» e se Jerry Lorenzo è passato da santo patrono degli hypebeast a rilassato dandy delle verdi colline di Los Feliz, qualcosa deve essere cambiato e ciò che ieri era vecchio è tornato attuale di nuovo mentre la novità e la rottura portate dallo streetwear appartengono a un linguaggio che esiste ma, nella sua forma più immediatamente contemporanea, è già trapassato.
Uno dei responsabili principali di questo riposizionamento può essere indicato in Teddy Santis che, con Aimè Leon Dore, ha gettato un ponte tra il mondo della hoodie e quello del blazer, tra il cappotto di lana spinata e la sneaker, tra il pantalone con la riga e il berretto da baseball, tra il prep universitario e lo sportswear cittadino. Forse una questione di zeitgeist culturale che, ad ogni modo, pare rispondere a un’esigenza di autenticità, profondità storica e originalità che una moda troppo standardizzata o programmaticamente volgare non era più in grado di soddisfare.