I dupe di Issey Miyake e la sacralità della moda
Fino a dove si può spingere il nostro rapporto con quello che indossiamo?
17 Aprile 2023
Quando si parla di dupe nel mondo della moda, molto spesso lo si fa riferendosi alle repliche di quegli item legati al trend del momento. Nel più classico dei meccanismi del fast-fashion, una volta che il capo fa la sua comparsa in passerella l’ufficio stile dello Zara di turno è già pronto a replicarlo nel minor tempo possibile così da cavalcarne la viralità e il successo. Ma cosa succede quando al centro del plagio c’è un oggetto iconico per la storia della moda? Recentemente una buona parte di quello che viene chiamato FashionTok, vale a dire la community moda di TikTok, ha manifestato tutto il suo malumore davanti a dei pantaloni Uniqlo che riprendono in tutto e per tutto il design dei ben più famosi pantaloni Homme Plissé di Issey Miyake.
Disponibili in quattro colori diversi, quelli messi in vendita da Uniqlo sono solo gli ultimi di una lunga serie di dupe dei pantaloni del designer giapponese che prima di oggi ha visto il suo lavoro già “omaggiato” da Zara e Cos, per citarne solo alcuni. Contrariamente a quanto accade di solito però, quando la copia del vestito virale di turno viene accolta con un misto di rassegnazione e disinteresse, questo ennesimo plagio del lavoro di Miyake non ha lasciato indifferenti gli appassionati di moda che popolano TikTok.
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Il motivo è presto spiegato ed è da ricercare nell’importanza storica dei capi Homme Plissè, la loro sacralità non solo per chi ripone il proprio amore per il lavoro del designer giapponese nelle pieghe dei suoi abiti, ma anche per chi semplicemente ne riconosce l’importanza. In un certo senso, è come se le catene fast-fashion iniziassero a vendere dupe della Tabi di Margiela o della crewneck Nebraska di Raf Simons. Come ha sottolineato il tiktoker @stevenhle, puntare il dito contro chi acquista le repliche di questi capi non significa però voler essere elitisti, ma sottolineare il controsenso stesso di comprare la replica di un oggetto così strettamente legato al suo designer e alla sua storia.
A lungo, in quella che sembra sempre di più una lotta tra bene e male, i cosiddetti investment piece hanno rappresentato il contraltare del dupe, l’articolo per cui si è disposti a spendere perché simbolo di una moda eterna e valoriale. Intervistata da Vogue Business, la chief customer officer di Aesop, Suzanne Santos, ha dichiarato che il brand recentemente acquistato da L’Oreal non ha alcuna intenzione di agire contro chi decide di replicale i loro prodotti perché, semplicemente, non c’è una soluzione al problema. «Ci sono persone convinte che un alternative brand sia un’opzione valida, questo è il bello di poter scegliere e della democrazia» ha dichiarato Santos.
Ma è davvero impossibile mettere un freno al mercato dei dupe? Se in molti casi i prodotti vengono venduti su siti privi di qualsiasi controllo come TaoBao o spesso anche Amazon, in altri la sottile linea tra il plagio e la semplice ispirazione dà la possibilità alle catene di fast-fashion di vendere a prezzi ribassati design fin troppo simili a quelli proposti dai brand. Ma se nel caso di Issey Miyake la scelta di acquistare una replica potrebbe venire anche da una semplice ignoranza nei confronti del prodotto originale (chi compra il dupe ignora l’esistenza del design originale), in molti altri l’imitazione è l’unica valvola di sfogo di un desiderio che nasce e si sviluppa in tutto il controsenso rappresentato dalla moda di oggi, onnipresente eppure inafferrabile.
Recentemente abbiamo parlato di come l’idea alla base della collaborazione tra Mugler ed H&M possa rappresentare un primo passo verso quella che sembrerebbe essere una strategia risolutiva per contrastare i dupe e dare la possibilità a tutti di approcciarsi a una moda oggi preclusa a molti. Lo stesso si può dire di altri casi, come Marni o JW Anderson con Uniqlo, esempi vincenti di un compromesso tra alto e basso che rischia però di sbilanciare ulteriormente il delicato equilibrio della moda, trasformando le catene fast-fashion, fino a ieri acerrimo nemico di qualsiasi purista della moda, nel nuovo alleato. Se è vero il detto “il nemico del mio nemico è mio amico”, il rischio è quello di vedere i grandi giganti del lusso lavarsi le mani del divario tra prodotto e compratore, trasformando il concetto stesso di sacralità della moda che ne ha sempre animato i consumi in una sorta di rito pagano il cui mantra principale è “guardare ma non toccare”.