La morte della sfilata come espressione artistica
Il fashion month appena conclusosi ha dimostrato che la moda è giunta alla fine di un'era iconica
09 Marzo 2023
La mia storia d'amore con la moda è iniziata intorno ai tredici anni, scorrendo YouTube sul computer del cubicolo dell'ufficio di mio padre quando era impegnato in qualche riunione, e imbattendomi nella sfilata Voss SS01 di Alexander McQueen: una stanza di vetro imbottita, con una scatola di vetro sporca al centro, intorno alla quale le modelle camminavano in modo piuttosto tormentato e maniacale. Sono stato immediatamente incuriosito e da lì sono caduto nella proverbiale tana del bianconiglio, scavando nell'archivio delle sfilate di McQueen, che mi ha portato anche al Dior di Gallino e allo Chanel di Karl Lagerfeld. Ciò che mi affascinava di più di queste sfilate era la grandiosità del tutto, e la loro capacità di abbinare abiti e teatralità per raccontare storie commoventi quanto un film, un dipinto o una qualsiasi forma di arte. È stato il momento in cui ho potuto assistere alla moda come forma d'arte e da lì la mia percezione dell'intero settore è cambiata completamente - specialmente dopo aver capito che non si trattava solo di "vestiti". Negli anni successivi, l'idea che sia la moda sia la sfilata fossero sullo stesso piano dell'arte comunemente intesa è stata alla base delle mie aspettative. Come nel musical perfetto, non si trattava solo della musica, dei costumi o degli attori, ma soprattutto della coesione di tutti questi elementi che si fondevano insieme per creare una storia o un sogno che si desiderava rivivere e ricordare indossando questi abiti molto tempo dopo.
Questa sete di bellezza collettiva è stata fortunatamente placata da quando ho iniziato ad assistere alle sfilate di designer come Alessandro Michele, con i suoi show concettuali per Gucci, come quella allestita nei Musei Capitolini di Roma che parlava dei diritti delle donne; o quelle di Demna, che per Balenciaga ha mandato le modelle su una passerella allagata per parlare del cambiamento climatico; o Sunnei che ha mandato i modelli letteralmente a correre per le strade nel tentativo di far rallentare le persone e assaporare il momento; o Thom Browne che è uno dei maestri dello storytelling per ogni sfilata che crea; Francesco Risso per Marni e John Galliano per Maison Margiela sono alcuni altri che mi vengono in mente. Nell'ultimo decennio si è talvolta arrivati al punto in cui le sfilate non erano solo poetiche, ma anche politiche, ed erano quindi in grado di esercitare la capacità dell'industria di imporre un cambiamento.
Tuttavia, ora più che mai, considerando il fashion month appena trascorso, è sempre più evidente che l'industria sta subendo un importante cambiamento di principi, in quanto l'idea che una sfilata sia concettualmente utilizzata per trasmettere un messaggio o una storia, e non solo per vendere abiti, sta diventando un ricordo del passato. La porta del Gucci di Alessandro Michele si è chiusa, il Balenciaga di Demna, dopo lo scandalo, è stato spogliato di ogni emozione e teatralità, e tutti gli altri si concentrano sulla creazione di abiti belli che vendono, o su sfilate accattivanti e clickbait per il gusto di diventare virali. Per i direttori creativi di oggi, l'attenzione sembra concentrarsi su uno di questi due campi, con il risultato di una sfilata interessante o di una collezione ben sviluppata. Entrambi questi aspetti dovrebbero in realtà fondersi per creare un effetto sinergico, ma ognuno di essi deve essere in grado di vivere da solo. Per esempio, di recente a Parigi c'è stata una sfilata di moda presentata sotto forma di serata comica con la partecipazione di comici, ed è stata una delle più divertenti e innovative rivisitazioni della moda, ma se gli abiti presentati fossero stati presentati al di fuori del contesto dello spettacolo comico, non sarebbero stati altrettanto interessanti. Al contrario, ci sono numerose collezioni che sono ben fatte e presentano abiti bellissimi, ma mancano di una sorta di trama coesa.
fashion is boring me gawdddddd... these fashion shows at pfw seem boring too... the models look dead... the audience dgaf and just pullin out their phones. boring ass ambient music. eye rolling gimmicks. its just not cutting it for me.
— v (@vaalalter) March 2, 2023
E anche se è chiaro che i designer e i CEO abbiano priorità diverse in questo contesto, si prova una certa tristezza pensando a entrambi gli scenari. Da un lato, assistere alla negligenza nell'esplorare le possibilità artistiche di queste sfilate provoca una certa malinconia nostalgica - le sfilate di moda paiono più fiere commerciali, la fantasia è meno completa e l'emozione è vuota; dall'altro lato, creare sfilate con lo scopo di diventare virali, fornirà esposizione al marchio per qualche ora, ma non garantirà le vendite. Mentre molti hanno lottato per trovare un equilibrio tra le due cose, ogni stagione un numero maggiore di brand sembra optare per la pura commercialità e, sebbene si debba piangere la fine di un'epoca che ha fatto innamorare tanti di noi della moda, si spera che l'affievolirsi dell'attenzione per la teatralità delle sfilate imponga agli stilisti di non abbandonare l'idea di creare un sogno, ma li costringa a impegnarsi per narrare questo sogno attraverso gli abiti - un'abilità che Jonathan Anderson ha in qualche modo padroneggiato da Loewe. È un'arte di elevato minimalismo che non richiede scenografie o oggetti di scena, ma propone gli abiti stessi come opere d'arte, e si può solo sperare che sia questa la direzione verso cui ci stiamo dirigendo come industria.