La sartoria espressionista della Paris Fashion Week
Giacche e pantaloni diventano veicolo di emozione
02 Marzo 2023
Quando, durante e dopo il lockdown, tutti credevano che saremmo rimasti in tuta per sempre, l’idea di un ritorno alla silhouette sartoriale pareva tanto difficile quanto necessario. La sartoria, con tutta la cultura che la circonda e da cui deriva, pareva quasi contraria ai tempi: la sua formalità richiamava un mondo del lavoro da cui ci si voleva distanziare e la sua eteronormatività pareva ormai obsoleta. Eppure, negli anni successivi al biennio della pandemia, la sartoria è tornata – il suo richiamo all’ordine, i suoi valori di classicità ne hanno fatto un frame di riferimento creativo su cui (in alcuni casi letteralmente) ricamare nuove idee e anche un appiglio a cui aggrapparsi in un mondo in cui pare regnare il caos. Ieri, a Parigi, abbiamo notato un nuovo schema: tre brand di culto, tre collezioni, tre diversi concetti interpretativi della medesima disciplina sartoriale. I loro show sono stati anche uno di seguito all’altro – il primo The Row a mezzogiorno, seguito da Undercover e poi da Dries Van Noten. Tutti e tre i brand hanno portato in passerella la loro idea di una sartoria che potremmo definire espressionista, in cui cioè gli stessi elementi della cultura sartoriale sono stati letti secondo tre ottiche soggettive che ne hanno distorto alcuni aspetti per creare reazioni insieme estetiche ed emotive.
Ha aperto le danze The Row. Diventato negli ultimi anni una specie di Uniqlo per miliardari, al pari di un’altra manciata di brand per lo più italiani come Loro Piana e Brunello Cucinelli, il marchio delle Olsen ha visto le proprie vendite crescere immensamente negli ultimi anni. I suoi show sono riservati, alteri e quasi aristocratici nel proprio silenzio stampa, agli ospiti vengono offerti rinfreschi tanto basici quanto elevati all’ultimo grado della raffinatezza che vanno dalla semplice acqua minerale premium al tè giapponese fino a latte di mandorla e cioccolata calda biologiche – il riflesso di una collezione che, chi ha visto dal vivo, definisce quasi inenarrabile, impossibile da spiegare se non la si tocca con mano, gli abiti sono come strutture fluide di tessuti di una morbidezza praticamente mitologica. Anche solo guardare il lookbook, in effetti, rappresenta una specie di spa di lusso per gli occhi. Stranamente la colonna sonora dello show era una versione live di Bela Lugosi Is Dead dei Bauhaus, canzone iconica del subcultura goth già apparsa al cinema in The Hunger, film in cui Catherine Deneuve è un vampira vestita in Saint Laurent - e che in effetti con tutto il nero presente nella collezione poteva anche avere un senso. La canzone, più che ai vampiri, era una specie di melodia ipnotica, che accompagnava una collezione di sartoria dove la dismisura era calcolata ad arte, diventava drappeggio opulento senza aderire alle misure del corpo ma beandosi nella magnificenza di tessuti quasi anonimi. C'è capriccio e c'è abbondanza nel desiderio di accumulare e plasmare questi materiali così neutrali - ma anche quel senso di orgoglio gentilizio che deriva dal distinguersi sempre senza farsi notare mai, una sartoria senza severità. Quando un dettaglio vivace come un guanto giallo sembrava un tocco di dandysmo oltre che un possibile rimando al poeta vittoriano Robert Browning, che ne indossava un paio come firma di stile personale.
Dopo tanta sublimità, Jun Takahashi di Undercover ha fatto precipitare il pubblico nel proprio personale multiverse of madness. I suoi completi avevano la sveltezza e l’aggressività dei mod, ricamati con le canzoni dei The Specials e decorati con le cover art del compositore tedesco Manuel Göttsching. Ovunque (e non solo sui completi, ma anche sulle gonne a tulipano viste più tardi) apparivano delle mani ricamate che il resto della stampa ha definito «evil witch hands» e «Grinch-like» ma che in realtà rappresentano la più esoterica delle reference alla copertina di un’edizione del 1979 di Dracula pubblicata da Penguin Books – un richiamo così peregrino e apparentemente casuale che dà la misura di quanto colto e caotico insieme riesca a essere Undercover, a quanto i suoi abiti riescano a essere familiari ma in realtà diversi da qualunque altro proprio simile. Giacche da smoking mescolate a puffer jacket in vita e un balaclava con corna, borsette decorate di spine, completi che sul retro erano composti con stoffe e ricami del tutto differenti, incrostazioni di strass come muschio alieno - qui c'era tanto un mondo di affetti che una forte espressione personale che il riflesso di un mondo caotico. Nel caos Takahashi si trova a suo agio - fu durante la pandemia che i suoi vestiti si erano fatti più meditativi e sereni.
Conclusi questi primi due show, alle tre è stata la volta di Dries Van Noten, che ha sfilato al Le Dôme de Paris. Ora, Van Noten è tra i più riveriti maestri della scuola belga (ma quale designer belga o legato alla scuola di Anversa non lo è?) che produce delle hit anno dopo anno. I suoi show non scioccano perché non vogliono scioccare, la tecnica è grandiosa, stampe e colori senza pari – e quest’anno la sua fantasia dalle simpatie avant-garde è stata applicata a molti classici della sartoria dentro una collezione il cui concept era l’intimità, la sovrapposizione di materiali forti e impalpabili, la delicatezza di ricami dorati che parevano preziose riparazioni e rammendi su pezzi classici. C’erano giacche a doppio petto di velluto color ruggine, baveri e vite dei pantaloni sfrangiati, cappotti pesantissimi che di baveri erano privi, rigidi tailleur la cui giacca era indossata su un top che pareva una fodera rivoltata – con tutta la loro sottigliezza, la loro non trasparente comprensibilità, questi abiti sembravano amati e familiari, come se fossero stati recuperati e indossati dopo molto tempo senza aver perso nulla della propria bellezza. Ogni dettaglio fuori posto era messo lì ad arte, pienamente visibile solo per chi lo indossa. L’idea era quella di una sartoria che, invece di proteggere come un’armatura, o di farsi veicolo di espressioni e rimandi edgy, trova un rapporto stranamente intimo con chi la indossa – un sentimento non rivoluzionario ma che scorreva libero come il jazz di Lander Gyselinck che animava la venue.