Pregi e difetti di una moda virale
E i rischi del dibattito in tempi di wokeness
03 Marzo 2023
L’abito spray di Coperni, gli animali imbalsamati di Schiaparelli, il costume da pagliaccio glitterato di Harry Styles ai Grammy o i pantaloni a palloncino di Sam Smith ai Brith Awards e ancora lo stage diving di Sunnei o la sfilata in “decomposizione” di Avavav: quest’anno la moda ha raggiunto un nuovo traguardo di viralità tramite espedienti, o gimmick, per utilizzare un’espressione di Rachel Tashjian, calibrati per destare scalpore sui social. Che si tratti di vestire le celebrità con look sopra le righe o di sfornare prodotti meme, i brand, sia emergenti che di lusso, sono in costante competizione per i riflettori tra una pletora di brand che rischia di superare l’ammontare dei compratori stessi. La scelta ricade sulla provocazione, sulle gag, sulle iniziative discutibili, su tutto ciò che può generare dibattito e ingraziare l’algoritmo, ma in tempi di wokeness non sempre il dibattito è garanzia di successo e il caso Balenciaga a seguito dello scandalo della campagna natalizia Gift ne è la prova. Sebbene l'uso di metriche di "earned media" che valorizzano la quantità - piuttosto che la qualità - delle discussioni online è diventato pervasivo nell'industria della moda, ritorna ciclicamente l’annosa questione: la cattiva pubblicità è davvero pur sempre pubblicità?
«I marchi rimangono intrappolati nella corsa al prossimo momento virale, è diventato il loro modo di fare marketing», ha detto a BOF il consulente di comunicazione Youssef Marquis, che in passato ha lavorato per Louis Vuitton e Givenchy. Dopo le recenti dichiarazioni di Pinault sulle perdite registrate in Gran Bretagna, Medio Oriente e Stati Uniti, non solo il gruppo Kering ha deciso di assumere un responsabile della “sicurezza del marchio”, ma la sfilata di Balenciaga alle porte nella capitale francese si preannuncia come un sobrio ritorno alle origini e all’heritage di Cristobal. Niente più borse a forma di busta della spazzatura, niente più pupazzi BDSM, niente più momenti virali come Kim Kardashian velata al Met Gala, e lo stesso vale per Gucci, che sotto la direzione creativa di Alessandro Michele ha destato scalpore vestendo gemelli omozigoti con abiti stravaganti o portando in passerella draghi e teste mozzate. Giunto al suo secondo show senza il designer romano, il brand ha rinunciato alle acrobazie, concentrandosi su un racconto dell’archivio in chiave moderna e una sensualità silente che ricorda il passato glorioso di Tom Ford, nell’attesa che l’insediamento di De Sarno chiarisca la direzione.
Il caso Schiaparelli consumatosi lo scorso gennaio alla Paris Fashion Week è la dimostrazione definitiva che la viralità può essere un'arma a doppio taglio. Kylie Jenner e Doja Cat, la prima con un enorme testa di leone (finta) applicata su un abito nero a sirena, la seconda ricoperta dalla testa a piedi di simil rubini e pittura rossa, hanno generato un tasso di visibilità per un valore stimato di 45 milioni di dollari, secondo la società di consulenza Launchmetrics. Eppure, nonostante il buzz generato dall'evento abbia eclissato di gran lunga colossi come Chanel e Dior, i feedback non sono stati affatto positivi, con tanto di accuse da parte di associazioni animaliste di "glamourizzare la caccia grossa" con le sue sfumature coloniali, indipendentemente dal fatto che gli animali imbalsamati fossero veri o meno.
Balenciaga e Gucci non sono gli unici marchi che stanno rivalutando il loro approccio. L'ansia di finire al centro delle polemiche sta spingendo un numero sempre maggiore di grandi marchi a incanalare le proprie risorse verso una visibilità più stabile e controllata attraverso accordi con star mainstream da cui ci si può aspettare un ritorno di immagine "sicuro", mettendo da parte gli scandali social e lasciando involontariamente spazio ai brand emergenti. Ma per le aziende più piccole, che non dispongono dei fondi dei grandi gruppi, rinunciare alla viralità significa rinunciare ad uno strumento di sopravvivenza indispensabile. Certo, Coperni è stato accusato di maschilismo e di dare risalto ad una narrazione patriarcale dopo aver riprodotto la scenetta di due uomini intenti a spruzzare un vestito addosso a Bella Hadid in topless al centro della stanza, ma la eco mediatica dell'evento è stata una mossa di marketing impagabile per la visibilità del marchio. Come ha giustamente osservato Marquis: «Ci sono così tanti marchi più piccoli non possono resistere all'attrazione di un momento virale. Ma può essere un'attrazione fatale, perché poi come si fa ad essere all'altezza?».