La semplicità sul palco dell'Ariston
C'è ancora del merito nella sottigliezza
10 Febbraio 2023
Da qualche anno a questa parte Sanremo si è trasformato da fatiscente riflesso di un’Italia in fase di stagnazione a una grande fabbrica di meme capace di mescolare la più imbalsamata tradizione italiana con una cultura più giovanile. Va da sé che il concetto di “cultura più giovanile” si porti dietro anche il riconoscimento dell’importanza della moda e, in effetti, grazie al lavoro di una manciata di stylist-superstar apparsi negli ultimi anni, le passate edizioni del festival sono state una gioia per gli occhi. Quest’anno Sanremo è tornato con un’energia mai vista prima – eppure sul palco dell’Ariston è un po’ sparita quella moda high-brow che Achille Lauro, La Rappresentante di Lista e Mahmood avevano portato in favore di opzioni più codificate e collocabili nella categoria di “outfit da palcoscenico”. In altre parole, quest’anno sono tutti vestiti con variazioni del classico eveningwear scintillanti tanto per paillettes quanto per la presenza di elementi metallici.
Durante la seconda serata però c’è stata una rottura: Colapesce e Dimartino si sono presentati con dei rarissimi look compositi e dunque non dei total look strappati dalla sfilata o da abiti custom-made ma con uno styling fatto “come una volta” da Giuseppe Magistro. Nello specifico indossavano completi di Paul Smith e Sartoria Trinchese rispettivamente, camicie di Gaelle Paris, gioielli Damiani e scarpe di Scarosso e Pierantoni. Nessun brand immediatamente riconoscibile, dunque, ma anche un paio di look che discostano dal nuovo immaginario sanremese composto al 90% di glitter e lustrini. Che Colapesce e Dimartino rappresentino, nel bene e nel male, una nuova e ardita proposizione del menswear? Un’idea di normcore che, nell’epicentro dello spettacolo televisivo, dove tatuaggi sul viso e abiti genderless non scioccano più nessuno, offre un nuovo paradigma di trasgressione?
La stessa sera qualche ora più avanti, di trasgressione ha parlato Angelo Duro nel suo poco convincente sketch di fine serata – dopo tutto anche un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno. Ciò che Angelo Duro ha detto, in sostanza, è che la più assoluta e banale normalità oggi è la vera trasgressione. L’idea che un completo possa essere indossato come un completo e basta è una proposizione stranamente ardita se si considera che la nuova uniformità degli “abiti di scena” diventata il paradigma fondamentale ora che l’era di Achille Lauro e dei suoi travestimenti è tramontata e ora che le mise provocanti dei Maneskin hanno compiuto il definitivo salto dello squalo. Il che fa pensare a un altro recente evento dell’industria musicale, i Grammy, sul cui red carpet si è vista una moda che molti membri del pubblico hanno definito su Twitter e altre piattaforme come «Hunger Games-level fashion».
In particolar modo fuori tempo massimo è apparso Harry Styles, orfano del Gucci di Alessandro Michele, che si è presentato con una tutina a losanghe di EgonLab suscitando più sbadigli che ammirazione – oltre che commenti alla sciocca assurdità di un outfit che non era nemmeno metaforicamente clownesco ma pareva trarre ispirazione dal mondo del circo. Paradossalmente, se Harry Styles si fosse presentato indossando il look più sobrio di un altro brand (immaginiamo, con un po’ di tracotanza, il completo di pelle verde visto allo show SS23 di Bottega Veneta) avrebbe letteralmente sconvolto tutti. Alla stessa maniera, i Maneskin ci potrebbero scioccare se li sorprendessimo a indossare jeans e chiodo di pelle in colori neutri, come il resto dei cantanti rock, e non abiti da sposa, tutine lamé o qualunque forma di outfit iper-decorato o iper-sexy che abbiamo visto finora. Per una cerimonia organizzata da Spotify a Los Angeles, in effetti, la band ha indossato dei castissimi outfit total white di Zegna che, per quanto nelle loro corde, sono apparsi riposanti nella loro assenza di pelle scoperta. In un mondo in costante caccia di visibilità, la discrezione è un atto sovversivo.
Paradossalmente, infine, proprio l’outfit di Colapesce e Dimartino, composto da pezzi di brand diversi e poco iper-lusso, è quello che riflette meglio quella tendenza alla riduzione, linearizzazione e minimalismo che abbiamo visto sulle passerelle del menswear di Milano e Parigi. Nella moda le decorazioni si riducono, l’aggressività sia visiva che concettuale si stempera, il prodotto si fa portabile e ragionevole, lontano da astruse dichiarazioni e vicino a una realtà di cui tutti vorremmo recuperare la presa. A differenza di blazer indossati sul torso nudo, delle camicie aperte fino all’ombelico che rivelano corpi ora atletici ora efebici, o di dettagli apparentemente trasgressivi, i due cantanti siciliani erano (mirabile dictu) abbottonati – come anche Fausto Lama dei Coma Cose, stupendo in Vivienne Westwood. Certo parliamo chiaramente di outfit poco impattanti, che non spazzano via il pubblico con la loro magnificenza, ma il punto è precisamente questo: c’è ancora del merito nella sottigliezza.