Come Schiapparelli ha citato “La Divina Commedia” di Dante
Tempo di rispolverare i vecchi testi di letteratura?
23 Gennaio 2023
«Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, / una lonza leggera e presta molto, / che di pel macolato era coverta; / […] / ma non sì che paura non mi desse / la vista che m’apparve d’un leone. / […] / Ed una lupa, che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza», così Dante nel primo canto del suo Inferno descrive l’incontro con tre bestie simboliche rispettivamente della lussuria, della superbia e della cupidigia – almeno secondo le interpretazioni più canoniche. E anche se esistono ancora oggi dubbi su cosa il Sommo Poeta intendesse per “lonza”, probabilmente un felino di qualche tipo, o una lince, o un leopardo, o una pantera, i tre animali sono uno dei terzetti più iconici della storia della letteratura medievale. Proprio a loro tre si riferiva Daniel Roseberry, che per la sua collezione Haute Couture di Schiapparelli ha creato le riproduzioni fedeli delle teste dei tre animali per creare interi abiti – suscitando l’inferocita indignazione di tutti quegli attivisti che, sui social, sono davvero convinti che il brand abbia ucciso veri animali per creare i look, tanto da farci domandare quale sia stata la loro reazione nel vedere le teste umane sulla passerella di Gucci qualche anno fa.
A dire il vero, il senso profondo dell’allegoria di Dante sembrava inizialmente essere stato del tutto mancato dal geniale designer di Schiapparelli, che ha scritto in un post di Instagram che i look «celebrano la gloria della natura e proteggono la donna che li indossa», con buona pace di medievisti e dantisti vari che in questo momento saranno già attaccati alla bombola di ossigeno. Nella lettera rivolta alla stampa il contesto era più particolareggiato, invece, e si comprende che le immagini dei tre animali fossero relative più all’incipit della Divina Commedia, con il poeta che si perde nella selva oscura visto come metafora del creativo che affronta il vuoto che precede la creazione, che nell’originale senso di uomo che si perde tra i vizi senza riuscire a scorgere la strada del bene morale. Sempre la “selva oscura” è una rappresentazione del terreno creativo inesplorato «dove tutto è spaventoso ma nuovo, in cui mi sarei lasciato guidare in un luogo che non conoscevo e non capivo». Una metafora per parlare di come nel corso della collezione siano state impiegate tecniche innovative che le stesse show notes descrivono: «le paillettes che fremono su alcuni abiti sono in realtà realizzate con lastre di lamiera rivestite in cuoio, la gonna ultra lavorata non è decorata in tessuto ma rivestita da perline in legno. Il luccichio iridescente degli abiti in velluto a colonna, in realtà è dipinto a mano con un pigmento che cambia colore a seconda della prospettiva, come le ali di una farfalla. Inoltre, i plastron sono stati scolpiti in strisce di madreperla ondulanti e con un intarsio di alberi di limone».
Sempre a riconfermare il legame con Dante (persino la collezione era intitolata Inferno) le show notes parlano di «tre look per ciascuno dei nove gironi dell'inferno» - il che è suggestivo ma fornisce una matematica forse incorretta dato che i look della collezione erano 32, ovvero 11 in più di quelli che sarebbero dovuti essere se ce ne fossero stati tre per girone. Ma queste sono sottigliezze. A fronte di una collezione, come sempre, spettacolare, Roseberry traccia una metafora dantesca un po’ forzata ma in definitiva poetica: «non c'è paradiso senza inferno, non c'è gioia senza dolore, non c'è l'estasi della creazione senza la tortura del dubbio. […] Nessuna ascensione al cielo è possibile senza un viaggio nel fuoco, insieme alla paura che ne deriva». Non di meno, il tirare in ballo un monumento della letteratura così enorme come Dante è un po’ più che audace («Questa lor tracotanza non è nova», scriveva disincantato Dante nell’ottavo canto) specialmente se poi i singoli look della collezione non sono così strettamente legati ai temi dell’effettiva opera letteraria a cui si fa riferimento. Però si parla di una collezione Haute Couture e non dei suoi paratesti – e lì, titubanze creative dichiarate a parte, Roseberry rimane il grande maestro che conosciamo e la sua Couture rimane forse la migliore che si veda a Parigi di questi tempi.